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5. Il riposo di Vladimir Ilic Ulianov (Lenin)

 

 

Uno scalpiccio di folla silenziosa nella penombra fra lucentezze vellutate di marmi neri. Operai, soldati, scolaresche con le loro insegnanti, scendono nella sontuosa catacomba. È una sommessa cateratta di passi giù per scalinate solenni invase da tenui luci riflesse. L’architetto che ha immaginato questa tomba per Lenin possiede il genio delle imponenze scenografiche.
Ha saputo esasperare l’attesa. La cripta funebre è assai più profonda, nella terra, di quanto ci si aspetta. La discesa pare un viaggio in un labirinto di pietra. Si ha il tempo di dimenticare per la strada la luce del giorno e le cose che vi si sono lasciate.
La muraglia murata del Cremlino, adesso barbaramente imbiancate (il bolscevismo ha i gusti di Nicola I); e in essa la Porta Spaskiè, davanti alla quale qualche umile funzionario sovietico si tocca con gesto distratto la visiera ripetendo furtivamente il saluto rituale all’immagine del Salvatore affrescata sull’arco; la porta Nikolski su cui un primitivo San Nicola, sbiadito e spettrale, pare benedica andandosene; e, in fondo alla chilometrica spianata, la sorprendente fioritura di cupole bizzarre della cattedrale si San Basilio, che sembra emersa da qualche leggenda orientale a ricordare che Ivan il Terribile era devoto: tutte queste cose si ergono intorno al monumento di Lenin. Hanno visto le battaglie, le stragi e le apoteosi della Piazza Rossa. E tutte queste cose, le ultime guardate, si hanno negli occhi e nel pensiero varcando la porta di bronzo del sepolcro bolscevico. Ma scendendo, gradino per gradino, ci si distacca incredibilmente da loro.
Si affonda in un incubo nero di marmi e di silenzio. Tutto si cancella in una tenebrosa eguaglianza. Nulla più esiste che una lugubre marcia di moltitudine per nudità grandiose e gelide dalle quali non si torna indietro. La storia, l’arte, la Russia, sono cose spente, visioni dileguate nel buio. Sale dal fondo della tragica cavità una indefinibile marea di annichilimento. Gradino per gradino ci si immerge nella gran tomba in cui è sepolto con un uomo di mondo.
Da fuori, quel piccolo mausoleo di granito rossigno, severo parallelepipedo che ha l’aria di una ridotta, non lascia indovinare le vastità abissali a cui dà accesso. Il monumento a Lenin non si slancia in alto: si sprofonda. È un sotterraneo. Hanno dedicato alla memoria di Vladimir Ilic Ulianov una camera da mina basilicale scavata sotto al Cremlino. Al posto dell’esplosivo, Lenin.
Il cadavere è immerso nella luce. L’urna di cristallo in cui sta disteso è come una enorme lanterna posata al centro della cattedrale comunista. Intorno tutto è incerto e oscuro. Sulle pareti nere grandi intarsi di marmi rari disegnano teorie di bandiere rosse, confuse come chiazze sanguigne sospese tutto in giro nelle tenebre. Ferma in una rigidità ipnotica, nel fossato di granito ai piedi della salma, una sentinella pare la statua del soldato in trincea. La folla sfila. Lo scalpiccio dei passi si fa leggero come davanti ad un sonno.
Tutti i giorni per due ore Lenin passa questa rivista sotterranea di fedeli. Alle diciotto il carillon che lo zar Michele, primo dei Romanov, fece mettere sulla Torre del Salvatore, suona elettricamente l’
Internazionale. La rivista cessa. La catacomba si svuota, le luci si spengono, la porta di bronzo si chiude. Il morto ha concluso il suo lavoro quotidiano e rimane solo nel buio.

 

Nel lugubre fasto della sua reggia sotterranea Lenin fa pensare ad un potentato asiatico che dorma qualche magico sonno. Ha una sorprendente apparenza di calma viva, a causa del sapiente colore dato al suo volto imbalsamato. Il carattere mongolico della sua faccia si accentua nella magrezza. Innumerevoli sagome di antenati tartari pare che affiorino su quella testa in una sintesi macabra. La sua larga bocca socchiusa conserva un indefinibile espressione, come si fosse fermata su asprezze rimaste inespresse. Un’impronta di aristocrazia è nella sua bruttezza asiatica.
Ulianov veniva da quelle regioni del Volga che furono sede dell’Orda d’Oro, gremite di discendenti dei dominatori mongoli emersi sette secoli fa dalla vallata di Karakorum, e dove oscuri fermenti combattività e di miseria hanno prodotto le più grandi esplosioni di rivolta della storia russa. Il sogno del più sottomesso degli schiavi è di essere padrone per un giorno. Come padrone massacra. Le insurrezioni del Volga sono state uragani di sangue. Il bolscevismo riconosce in esse i propri precedenti lontani. Quelle rivolte hanno infatti il posto di prefazione nelle Esposizioni della rivoluzione.
Il carattere emotivo e pigro, impulsivo e indolente,
credulo, passivo e passionale del popolo russo, somiglia a quel miscuglio di energie dormienti e di sostanze neutre e dolciastre che compongono la dinamite: qualche cosa di inerte e di innocuo che aspetta soltanto un urto per diventare inferno. Le molle del furore russo sono semplici e poche: toccandole si produce il “pogrom”. Il “pogrom” è alla base di tutto in Russia. Successioni al trono, mutamenti di regime, di dinastie, di egemonie, hanno sempre cominciato con un “pogrom”: stragi di predecessori, stermini di rivali, vendette, persecuzioni, terrori. E poi, eventualmente, un grande governo. E un grande silenzio.  
Se qualche Pugacev di università si mettesse alla testa di un partito” – scriveva De Maistre quasi un secolo fa alludendo alla spaventosa rivolta scatenata nel Volga dall’atamanno cosacco Pugacev e che fece tremare per un anno il trono della grande Caterina – “e il popolo cominciasse una rivoluzione all’europea, io non ho espressione per dire quello che si potrebbe temere”. Ebbene, il Pugacev di università è venuto. Eccolo là, dentro quell’urna di splendore. La testa lievemente reclinata, le mani stanche posate sulle cosce, vestito di nero per la prima volta, egli è nobilmente composto nell’atteggiamento di profondo riposo che segue le immense fatiche.
Lenin aveva l’istinto della dominazione, come un Khan, e una fede ardente nella sua idea. Nascosto, fuggiasco, lontano, aspettava. Menava la vita di un pretendente povero. La sua volontà, lucida, feroce, paziente, maniaca, era sempre tesa verso la conquista del potere.
Adattava il suo fervente marxismo alle circostanze come si adatta l’alzo del fucile per colpire meglio.
Amava un’umanità teorica. Negli uomini vedeva, come Neciaiev,
delle pedine che possono essere sacrificate. Arrivato al governo confessava un giorno a Gorki che la musica gli dava talvolta aspirazioni caritatevoli. “Ma – aggiungeva – se carezzi le teste degli uomini rischi che ti mordano le dita. Bisogna picchiare su quelle teste…”.
Qualche cosa di simile significava Ivan il Terribile
dicendo all’interprete che gli traduceva le allusioni di un ambasciatore alle sue crudeltà: “Dì a questo cretino di straniero che lui non conosce la Russia ed io sì, e che se io non impicco i miei sudditi, loro impiccano me”.
Lenin non si imbarazzava di idee di giustizia,
che è un pregiudizio occidentale come il sentimento della cavalleria. Trovava qualsiasi inganno giustificato, quando riesce. Sapeva fulminare, dissimulare, fuggire. “Se non sai adattarti – diceva – se non sai strisciare per terra, col ventre nel fango, non sei un rivoluzionario ma un vanaglorioso”. Aveva impeti demoniaci e conciliazioni prudenti, a seconda che dovesse sopraffare o illudere il nemico, stabilendo quel principio di slealtà utilitaria che è alla base della politica bolscevica.
Tutto questo è Asia.
Era in Lenin la diplomazia di un Li-Hung-Ciang e l’inesorabilità di un Genghis Khan. Era nato per governare un paese come la Russia. Quel piccolo uomo trasandato, tozzo, con i calzoni troppo lunghi, l’occhio crudele e convincente, i capelli arruffati sule tempie, la parola incisiva e incendiaria, era fatto della stoffa dei grandi zar.

 

Lenin, dopo l’infelice tentativo insurrezionale del 1905 a Mosca, non ha mai più pensato di suscitare personalmente una rivoluzione. Quello era affare da girondini. Egli si preparava a portar via la rivoluzione dalle mani di chi l’avesse fatta. Essa doveva venire, era fatale, e maturava nelle classi dirigenti. Lenin l’aspettava in agguato. Era in agguato dei rivoluzionari, non dello zar. I suoi attacchi, i suoi furori, i suoi anatemi, erano contro gli affini, i vicini, i correligionari, contro coloro che egli avrebbe dovuto sconfiggere quando lo zarismo fosse stato da loro sconfitto. L’ostilità di un erede non va al moribondo ma agli altri eredi. Lenin odiava più attivamente un menscevico che un granduca. Egli ha combattuto soltanto contro dei rivoluzionari.

Per quasi vent’anni ha condotto una guerra di mina cerebrale da squallide camere in affitto svizzere, tedesche, inglesi, solo con la moglie Nadeshda, che in certi momenti pareva tutto il suo partito, scrivendo davanti agli avanzi di un’aringa ed alle tazze sporche. Era un anacoreta ragionante pieno di furori messianici e di raziocini matematici. La sua idea di governo era assolutista. “Ma la tua organizzazione rivoluzionaria non è che autocrazia!”, gli disse Trotzki a Londra trentadue anni fa. “E perché no?”, rispose Lenin. “Date le circostanze non può essere diversamente”. Aveva ragione, ma pensava come un conquistatore.
L’importante è che facciamo la conquista del potere”, egli scriveva nel 1905. “La conquista del potere è per me più importante del socialismo. Perché conquistato il potere eserciteremo un grande influsso in Europa da suscitarvi un grande incendio rivoluzionario…”. Quest’ansia di internazionalismo viene probabilmente dall’essere la religione dei rivoluzionari russi fatta di dottrine straniere, e dell’avere essi formata la loro coscienza all’estero, fra un condanna, un esilio, un’evasione, a contatto e nella solidarietà di rivoluzionari di tutto il mondo. Ma forse risponde anche ad uno spirito ben russo di redenzionismo.
Cioè di imperialismo.
I russi sono espansionisti di istinto, da gente che calcola a migliaia di miglia, che trova l’Europa più vicina e più piccola di tante provincie della loro stessa terra.
La Russia si è dibattuta nell’ossessionante aspirazione di grandezze che venivano dall’eredità dei Khan, dal ricordo di Bisanzio, cioè di Roma, e, in ultimo, dalla lezione di Napoleone. Ha sempre creduto ad una sua missione di dominio sulla terra.
Cento anni fa, visitando San Pietro a Roma, il granduca Michele esclamò: “È bello, ma quanto sarà più bello quando noi russi officeremo qui dentro”. Era il tempo in cui la Russia interveniva negli affari di tutta Europa a sostegno del principio autocratico, e Tiucev, interprete del pensiero di Nicola I, scriveva: “Non vi sono in Europa che due potenze reali, la Rivoluzione e la Russia. Dalla lotta fra di loro due dipende l’avvenire politico e religioso dell’umanità”. Non c’è niente di cambiato salvo la posizione dei termini. La Rivoluzione è adesso dall’altra parte, ma i bolscevichi sentono come Nicola I.
Cosa strana, Lenin, questo sollevatore di cicloni umani, non aveva mai parlato a più di cento persone riunite prima di piombare da un treno tedesco nella Russia in fiamme. E così quasi tutti gli uomini del suo stato maggiore.
Arrivavano dai quattro
angoli dell’Europa, dove molti di loro, come Lenin, vivevano alle spese del partito la vita grama ma quieta di piccoli pensionati. Trotzki veniva dall’America dove aveva persino fatto la comparsa cinematografica. Erano profughi, cospiratori, fuggiaschi anche quando non fuggivano, scrittori clandestini, dottrinari esercitati alle discussioni litigiose di piccoli congressi segreti. Ma non avevano mai avuto contatti diretti continuati con le masse, non avevano mai vissuto con loro, non le avevano mai condotte, e di esse conoscevano gli odi assai più dei bisogni. Sapevano cosa distruggere ma non cosa costruire. Per la costruzione confidavano in Karl Marx.
A Pietrogrado, appena assunto il potere, Lenin promise la realizzazione della felicità comunista in pochi mesi. Da Mosca dichiarò, successivamente, che due o tre anni sarebbero stati ancora necessari. Un anno prima di morire parlava di “alcuni decenni”. La grande vera tragedia di Lenin è qui. Comincia dopo il suo trionfo.
L’ignoranza bolscevica spiega gli eventi di diciassette anni. Il credo socialista, nato in Germania dai fenomeni di una intensa industrializzazione, non avevano alcun significato in un immenso paese agricolo con centosessanta milioni di ettari coltivabili e un centinaio di milioni di contadini che reclamavano la terra. La popolazione operaia, nel cui nome si governava l’impero, non era che il quattro per cento del popolo russo. Sorgevano problemi urgenti e giganteschi che significavano fame, anarchia, massacro, e che sfuggivano a tutte le cognizioni ed alle soluzioni teoriche del bolscevismo, le quali apparivano così perfette esaminate ad un tavolo di piccolo caffè di Ginevra o di Soho Square.
Non crediate che manchi il potere politico – scriveva coraggiosamente Lenin nel 1920 – Ne abbiamo anche più del necessario. Quello che manca è il sapere…. La nostra élite comunista non è sufficientemente colta…. I comunisti sono gocce d’acqua nel mare del popolo…. Solo se conosceremo con chiarezza i desideri del popolo potremo governarlo”.
Vi è qualche cosa di profondamente umano e patetico nelle parole del grande distruggitore arrivato alle angosce dell’uomo di governo.
“Siamo dinanzi a difficoltà gravi – egli diceva ad un suo amico. – Noi siamo dei vecchi congiurati e non abbiamo pratica di amministrare e di dirigere uno Stato. Ma impareremo”.
“Impareremo!”, era come porsi di imparare la medicina dopo aver aperto il ventre
al paziente. Fortunatamente per i bolscevichi il paziente russo resiste a tutte le operazioni.
La guerra fra la città e la campagna,
fra chi ha la forza e chi ha il pane, fra il comunismo e i contadini una guerra che costituisce la storia di tutto il regime sovietico, era inevitabile. Due correnti sorsero nel governo bolscevico, una intransigente e una temporeggiatrice, che è stata la più forte finché ha vissuto Lenin. Egli ha condotto la lotta contro ai “mugik” con una duttilità da grande statista. Sapeva colpire e cedere. Era volta a volta terribile e conciliante.
Diceva ai contadini: “Possiamo andare
d’accordo. Voi potete rovesciarci ma non potete governare. Chi verrebbe dopo di noi? Se tornassero i “bianchi” vi riprenderebbero tutto”. Aveva l’aria di proteggere la piccola proprietà campestre mentre cercava come distruggerla. I “mugik” spodestati lo ricordano adesso come un patrono. Ebbero da lui le terre nel 1917 e la “Nep” nel 1921. È morto in pace con loro.

Un altro uomo del tipo asiatico ha il comando. Nato nel Caucaso, dove così profondi sono i ricordi, le tracce e le influenze della dominazione della Persia, Stalin, che si è chiamato David, Koba, Nisceradse, Ciscikov, Ivanovic, ed il cui nome vero è Jughasvili, evaso due volte dalla Siberia, al contrario di Lenin e di tutti gli altri fondatori del bolscevismo non ha mai preso residenza in Europa.
Ha la faccia bruna, dura, impassibile e fine di un persiano. Veste sempre una sua casacca grigia perché detesta le apparenze occidentali. Il suo odio per l’Europa arriva alla cravatta.
Freddo, calmo, sottile, tenace, inesorabile, egli dirige il Partito Comunista, che dirige il Governo sovietico, che dirige l’URSS. Tutti i fili convergono nelle sue mani, nell’ombra di una Segreteria. Gli uomini che erano fra lui e il potere hanno lasciato la scena, rigettati nella massa, o fuggiti all’estero, o deportati in Siberia, o semplicemente morti. Uno ad uno, gli avversari del formidabile caucasico sono stati indotti a commettere errori che li hanno perduti, o sono stati costretti e confessare errori liquidatori.
È Stalin che ha gettato l’immenso peso della economia russa sulla industrializzazione ad oltranza, la quale assume le forme della proletarizzazione totale del popolo russo. La grande offensiva comunista contro la campagna trasforma i contadini in “operai agricoli”.
Adunati, irreggimentati, inquadrati, i contadini sono messi in rango sui solchi. La caserma è il vero ideale sociale del bolscevismo.
Ma quando la immane fatica di questa smisurata industrializzazione, che ora si svolge in perdita, riuscisse eventualmente a creare sopravanzi di ricchezza, allora ingigantirebbero certe sperequazioni di benessere fra uno strato e l’altro della società, le quali si sono determinate e si precisano violente.
Perché l’eguaglianza comunista esiste e permane soltanto nella profonda miseria, quando tutti hanno gli stessi stracci, la stessa fame, la stessa pena. L’indigenza generale è la sola, vera e grande livellatrice sociale. La distribuzione di una prosperità non farebbe che moltiplicare, con la diversità dei compensi e dei regimi di vita, le distanze che l’industrializzazione ha creato fra due grandi gruppi di classi sociali russe: le classi di chi comanda e le classi di chi obbedisce.
E questa Russia di privilegi, di sperequazioni e di ingiustizie che oscuramente nasce, non somiglierà molto al paradiso bolscevico la cui immagine si è formata ed è rimasta, forse, come una fotografia non sviluppata, entro quel cranio di avorio che splende nel sottosuolo della Piazza Rossa.

 

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