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URSS. L’impero del
lavoro forzato > 5.
Il riposo di Vladimir Ilic Ulianov (Lenin).
* * * * *
Uno scalpiccio di folla silenziosa nella penombra fra lucentezze vellutate di marmi neri. Operai,
soldati, scolaresche con le loro insegnanti, scendono nella
sontuosa catacomba. È una sommessa cateratta di passi giù per
scalinate solenni invase da tenui luci riflesse. L’architetto
che ha immaginato questa tomba per Lenin possiede il genio delle
imponenze scenografiche.
Ha saputo esasperare l’attesa. La cripta
funebre è assai più profonda, nella terra, di quanto ci si
aspetta. La discesa pare un viaggio in un labirinto di pietra.
Si ha il tempo di dimenticare per la strada la luce del giorno e
le cose che vi si sono lasciate.
La muraglia murata del Cremlino, adesso barbaramente imbiancate
(il bolscevismo ha i gusti di Nicola I); e in essa la Porta
Spaskiè, davanti alla quale qualche umile funzionario sovietico
si tocca con gesto distratto la visiera ripetendo furtivamente
il saluto rituale all’immagine del Salvatore affrescata
sull’arco; la porta Nikolski su cui un primitivo San Nicola,
sbiadito e spettrale, pare benedica andandosene; e, in fondo
alla chilometrica spianata, la sorprendente fioritura di cupole
bizzarre della cattedrale si San Basilio, che sembra emersa da
qualche leggenda orientale a ricordare che Ivan il Terribile era
devoto: tutte queste cose si ergono intorno al monumento di
Lenin. Hanno visto le battaglie, le stragi e le apoteosi della
Piazza Rossa. E tutte queste cose, le ultime guardate, si hanno
negli occhi e nel pensiero varcando la porta di bronzo del
sepolcro bolscevico. Ma scendendo, gradino per gradino, ci si
distacca incredibilmente da loro.
Si affonda in un incubo nero di marmi e di silenzio. Tutto si
cancella in una tenebrosa eguaglianza. Nulla più esiste che una
lugubre marcia di moltitudine per nudità grandiose e gelide
dalle quali non si torna indietro. La storia, l’arte, la Russia,
sono cose spente, visioni dileguate nel buio. Sale dal fondo
della tragica cavità una indefinibile marea di annichilimento.
Gradino per gradino ci si immerge nella gran tomba in cui è
sepolto con un uomo di mondo.
Da fuori, quel piccolo mausoleo di granito rossigno, severo
parallelepipedo che ha l’aria di una ridotta, non lascia
indovinare le vastità abissali a cui dà accesso. Il monumento a
Lenin non si slancia in alto: si sprofonda. È un sotterraneo.
Hanno dedicato alla memoria di Vladimir Ilic Ulianov una camera
da mina basilicale scavata sotto al Cremlino. Al posto
dell’esplosivo, Lenin.
Il cadavere è immerso nella luce. L’urna
di cristallo in cui sta disteso è come una enorme lanterna
posata al centro della cattedrale comunista. Intorno tutto è
incerto e oscuro. Sulle pareti nere grandi intarsi di marmi rari
disegnano teorie di bandiere rosse, confuse come chiazze
sanguigne sospese tutto in giro nelle tenebre. Ferma in una
rigidità ipnotica, nel fossato di granito ai piedi della salma,
una sentinella pare la statua del soldato in trincea. La folla
sfila. Lo scalpiccio dei passi si fa leggero come davanti ad un
sonno.
Tutti i giorni per due ore Lenin passa questa rivista
sotterranea di fedeli. Alle diciotto il carillon che lo zar
Michele, primo dei Romanov, fece mettere sulla Torre del
Salvatore, suona elettricamente l’Internazionale. La rivista cessa. La catacomba si svuota, le luci
si spengono, la porta di bronzo si chiude. Il morto ha concluso
il suo lavoro quotidiano e rimane solo nel buio.
Nel lugubre fasto della sua reggia sotterranea Lenin
fa pensare ad un potentato asiatico che dorma qualche magico
sonno. Ha una sorprendente apparenza di calma viva, a causa del
sapiente colore dato al suo volto imbalsamato. Il carattere
mongolico della sua faccia si accentua nella magrezza.
Innumerevoli sagome di antenati tartari pare che affiorino su
quella testa in una sintesi macabra. La sua larga bocca socchiusa
conserva un indefinibile espressione, come si fosse fermata su
asprezze rimaste inespresse. Un’impronta di aristocrazia è nella
sua bruttezza asiatica.
Ulianov veniva da quelle regioni del Volga che
furono sede dell’Orda d’Oro, gremite di discendenti dei
dominatori mongoli emersi sette secoli fa dalla vallata di
Karakorum, e dove oscuri fermenti combattività e di miseria
hanno prodotto le più grandi esplosioni di rivolta della storia
russa. Il sogno del più sottomesso degli schiavi è di essere
padrone per un giorno. Come padrone massacra. Le insurrezioni
del Volga sono state uragani di sangue. Il bolscevismo riconosce
in esse i propri precedenti lontani. Quelle rivolte hanno
infatti il posto di prefazione nelle Esposizioni della
rivoluzione.
Il carattere emotivo e pigro, impulsivo e indolente, credulo, passivo e passionale del popolo russo,
somiglia a quel miscuglio di energie dormienti e di sostanze
neutre e dolciastre che compongono la dinamite: qualche cosa di
inerte e di innocuo che aspetta soltanto un urto per diventare
inferno. Le molle del furore russo
sono semplici e poche: toccandole si produce il “pogrom”. Il
“pogrom” è alla base di tutto in Russia. Successioni al trono,
mutamenti di regime, di dinastie, di egemonie, hanno sempre
cominciato con un “pogrom”: stragi di predecessori, stermini di
rivali, vendette, persecuzioni, terrori. E poi, eventualmente,
un grande governo. E un grande
silenzio.
“Se qualche Pugacev di università si
mettesse alla testa di un partito” – scriveva De Maistre quasi
un secolo fa alludendo alla spaventosa rivolta scatenata nel
Volga dall’atamanno cosacco Pugacev e che fece tremare per un
anno il trono della grande Caterina – “e il popolo cominciasse una rivoluzione all’europea, io non ho espressione
per dire quello che si potrebbe temere”. Ebbene, il Pugacev di
università è venuto. Eccolo là, dentro quell’urna di splendore.
La testa lievemente reclinata, le mani stanche posate sulle
cosce, vestito di nero per la prima volta, egli è nobilmente
composto nell’atteggiamento di profondo riposo che segue le
immense fatiche.
Lenin aveva l’istinto della dominazione, come un Khan, e una
fede ardente nella sua idea. Nascosto, fuggiasco, lontano,
aspettava. Menava la vita di un pretendente povero. La sua
volontà, lucida, feroce, paziente, maniaca, era sempre tesa
verso la conquista del potere. Adattava
il suo fervente marxismo alle circostanze come si adatta l’alzo
del fucile per colpire meglio.
Amava un’umanità teorica. Negli uomini vedeva, come Neciaiev, delle pedine che possono essere sacrificate.
Arrivato al governo confessava un giorno a Gorki che la musica
gli dava talvolta aspirazioni caritatevoli. “Ma – aggiungeva –
se carezzi le teste degli uomini rischi che ti mordano le dita.
Bisogna picchiare su quelle teste…”.
Qualche cosa di simile significava Ivan il Terribile dicendo all’interprete che gli traduceva le
allusioni di un ambasciatore alle sue crudeltà: “Dì a questo
cretino di straniero che lui non conosce la Russia ed io sì, e
che se io non impicco i miei sudditi, loro impiccano me”.
Lenin non si imbarazzava di idee di giustizia, che è un pregiudizio occidentale come il sentimento
della cavalleria. Trovava qualsiasi inganno giustificato, quando
riesce. Sapeva fulminare, dissimulare, fuggire. “Se non sai adattarti –
diceva – se non sai strisciare per
terra, col ventre nel fango, non sei un rivoluzionario ma un
vanaglorioso”. Aveva impeti demoniaci e conciliazioni
prudenti, a seconda che dovesse sopraffare o illudere il nemico,
stabilendo quel principio di slealtà utilitaria che è alla base
della politica bolscevica.
Tutto questo è Asia.
Era in Lenin la diplomazia di un Li-Hung-Ciang e l’inesorabilità
di un Genghis Khan. Era nato per governare un paese come la
Russia. Quel piccolo uomo trasandato, tozzo, con i calzoni
troppo lunghi, l’occhio crudele e convincente, i capelli
arruffati sule tempie, la parola incisiva e incendiaria, era
fatto della stoffa dei grandi zar.
Lenin, dopo l’infelice tentativo insurrezionale del 1905 a Mosca, non ha mai più pensato di suscitare personalmente una rivoluzione. Quello era affare da girondini. Egli si preparava a portar via la rivoluzione dalle mani di chi l’avesse fatta. Essa doveva venire, era fatale, e maturava nelle classi dirigenti. Lenin l’aspettava in agguato. Era in agguato dei rivoluzionari, non dello zar. I suoi attacchi, i suoi furori, i suoi anatemi, erano contro gli affini, i vicini, i correligionari, contro coloro che egli avrebbe dovuto sconfiggere quando lo zarismo fosse stato da loro sconfitto. L’ostilità di un erede non va al moribondo ma agli altri eredi. Lenin odiava più attivamente un menscevico che un granduca. Egli ha combattuto soltanto contro dei rivoluzionari.
Per quasi vent’anni ha condotto una
guerra di mina cerebrale da squallide camere in affitto
svizzere, tedesche, inglesi, solo con la moglie Nadeshda, che in certi momenti pareva tutto il suo partito,
scrivendo davanti agli avanzi di un’aringa ed alle tazze
sporche. Era un anacoreta ragionante pieno di furori messianici
e di raziocini matematici. La sua idea di governo era
assolutista. “Ma la tua organizzazione rivoluzionaria non è che
autocrazia!”, gli disse Trotzki a Londra trentadue anni fa. “E
perché no?”, rispose Lenin. “Date le circostanze non può essere
diversamente”. Aveva ragione, ma pensava come un conquistatore.
“L’importante è che facciamo la
conquista del potere”, egli scriveva nel 1905. “La conquista del
potere è per me più importante del socialismo. Perché
conquistato il potere eserciteremo un grande influsso in Europa
da suscitarvi un grande incendio rivoluzionario…”. Quest’ansia
di internazionalismo viene probabilmente dall’essere la
religione dei rivoluzionari russi fatta di dottrine straniere, e
dell’avere essi formata la loro coscienza all’estero, fra un
condanna, un esilio, un’evasione, a contatto e nella solidarietà
di rivoluzionari di tutto il mondo. Ma forse risponde anche ad
uno spirito ben russo di redenzionismo.
Cioè di imperialismo.
I russi sono espansionisti di istinto, da gente che calcola a
migliaia di miglia, che trova l’Europa più vicina e più piccola
di tante provincie della loro stessa terra. La Russia si è dibattuta nell’ossessionante
aspirazione di grandezze che venivano dall’eredità dei Khan, dal
ricordo di Bisanzio, cioè di Roma, e, in ultimo, dalla lezione
di Napoleone. Ha sempre creduto ad una sua missione di dominio
sulla terra.
Cento anni fa, visitando San Pietro a Roma, il granduca Michele
esclamò: “È bello, ma quanto sarà più bello quando noi russi
officeremo qui dentro”. Era il tempo in cui la Russia
interveniva negli affari di tutta Europa a sostegno del
principio autocratico, e Tiucev, interprete del pensiero di
Nicola I, scriveva: “Non vi sono in Europa che due potenze
reali, la Rivoluzione e la Russia. Dalla lotta fra di loro due
dipende l’avvenire politico e religioso dell’umanità”. Non c’è
niente di cambiato salvo la posizione dei termini. La
Rivoluzione è adesso dall’altra parte, ma i bolscevichi sentono
come Nicola I.
Cosa strana, Lenin, questo sollevatore di cicloni umani, non
aveva mai parlato a più di cento persone riunite prima di
piombare da un treno tedesco nella Russia in fiamme. E così
quasi tutti gli uomini del suo stato maggiore.
Arrivavano dai quattro angoli
dell’Europa, dove molti di loro, come Lenin, vivevano alle spese
del partito la vita grama ma quieta di piccoli pensionati.
Trotzki veniva dall’America dove aveva persino fatto la comparsa
cinematografica. Erano profughi, cospiratori, fuggiaschi anche
quando non fuggivano, scrittori clandestini, dottrinari
esercitati alle discussioni litigiose di piccoli congressi
segreti. Ma non avevano mai avuto contatti diretti continuati
con le masse, non avevano mai vissuto con loro, non le avevano
mai condotte, e di esse conoscevano gli odi assai più dei
bisogni. Sapevano cosa distruggere ma non cosa costruire. Per la
costruzione confidavano in Karl Marx.
A Pietrogrado, appena assunto il potere, Lenin promise la
realizzazione della felicità comunista in pochi mesi. Da Mosca
dichiarò, successivamente, che due o tre anni sarebbero stati
ancora necessari. Un anno prima di morire parlava di “alcuni
decenni”. La grande vera tragedia di Lenin è qui. Comincia dopo
il suo trionfo.
L’ignoranza bolscevica spiega gli eventi di diciassette anni. Il
credo socialista, nato in Germania dai fenomeni di una intensa
industrializzazione, non avevano alcun significato in un immenso
paese agricolo con centosessanta milioni di ettari coltivabili e
un centinaio di milioni di contadini che reclamavano la terra.
La popolazione operaia, nel cui nome si governava l’impero, non
era che il quattro per cento del popolo russo. Sorgevano
problemi urgenti e giganteschi che significavano fame, anarchia,
massacro, e che sfuggivano a tutte le cognizioni ed alle
soluzioni teoriche del bolscevismo, le quali apparivano così
perfette esaminate ad un tavolo di piccolo caffè di Ginevra o di
Soho Square.
“Non crediate che manchi il potere
politico – scriveva coraggiosamente Lenin nel 1920 – Ne abbiamo
anche più del necessario. Quello che manca è il sapere…. La
nostra élite comunista non è sufficientemente colta…. I
comunisti sono gocce d’acqua nel mare del popolo…. Solo se
conosceremo con chiarezza i desideri del popolo potremo
governarlo”.
Vi è qualche cosa di profondamente umano e patetico nelle parole
del grande distruggitore arrivato alle angosce dell’uomo di
governo.
“Siamo dinanzi a difficoltà gravi – egli diceva ad un suo amico.
– Noi siamo dei vecchi congiurati e non abbiamo pratica di
amministrare e di dirigere uno Stato. Ma impareremo”.
“Impareremo!”, era come porsi di imparare la medicina dopo aver
aperto il ventre al paziente.
Fortunatamente per i bolscevichi il paziente russo resiste a
tutte le operazioni.
La guerra fra la città e la campagna, fra
chi ha la forza e chi ha il pane, fra il comunismo e i contadini
una guerra che costituisce la storia di tutto il regime
sovietico, era inevitabile. Due correnti sorsero nel governo
bolscevico, una intransigente e una temporeggiatrice, che è
stata la più forte finché ha vissuto Lenin. Egli ha condotto la
lotta contro ai “mugik” con una duttilità da grande statista.
Sapeva colpire e cedere. Era volta a volta terribile e
conciliante.
Diceva ai contadini: “Possiamo andare d’accordo.
Voi potete rovesciarci ma non potete governare. Chi verrebbe
dopo di noi? Se tornassero i “bianchi” vi riprenderebbero
tutto”. Aveva l’aria di proteggere la piccola proprietà
campestre mentre cercava come distruggerla. I “mugik” spodestati
lo ricordano adesso come un patrono. Ebbero da lui le terre nel
1917 e la “Nep” nel 1921. È morto in pace con loro.
Un altro uomo del tipo asiatico ha il
comando. Nato nel Caucaso, dove così profondi sono i ricordi, le
tracce e le influenze della dominazione della Persia, Stalin,
che si è chiamato David, Koba, Nisceradse, Ciscikov, Ivanovic,
ed il cui nome vero è Jughasvili, evaso due volte dalla Siberia,
al contrario di Lenin e di tutti gli altri fondatori del
bolscevismo non ha mai preso residenza in Europa.
Ha la faccia bruna, dura, impassibile e fine di un persiano.
Veste sempre una sua casacca grigia perché detesta le apparenze
occidentali. Il suo odio per l’Europa arriva alla cravatta.
Freddo, calmo, sottile, tenace, inesorabile, egli dirige il
Partito Comunista, che dirige il Governo sovietico, che dirige
l’URSS. Tutti i fili convergono nelle sue mani, nell’ombra di
una Segreteria. Gli uomini che erano fra lui e il potere hanno
lasciato la scena, rigettati nella massa, o fuggiti all’estero,
o deportati in Siberia, o semplicemente morti. Uno ad uno, gli
avversari del formidabile caucasico sono stati indotti a
commettere errori che li hanno perduti, o sono stati costretti e
confessare errori liquidatori.
È Stalin che ha gettato l’immenso peso
della economia russa sulla industrializzazione ad oltranza, la
quale assume le forme della proletarizzazione totale del popolo
russo. La grande offensiva comunista contro la campagna
trasforma i contadini in “operai agricoli”.
Adunati, irreggimentati, inquadrati, i
contadini sono messi in rango sui solchi. La caserma è il vero
ideale sociale del bolscevismo.
Ma quando la immane fatica di questa smisurata
industrializzazione, che ora si svolge in perdita, riuscisse
eventualmente a creare sopravanzi di ricchezza, allora
ingigantirebbero certe sperequazioni di benessere fra uno strato
e l’altro della società, le quali si sono determinate e si
precisano violente. Perché
l’eguaglianza comunista esiste e permane soltanto nella profonda
miseria, quando tutti hanno gli stessi stracci, la stessa fame,
la stessa pena. L’indigenza generale è la sola, vera e grande
livellatrice sociale. La distribuzione di una prosperità non
farebbe che moltiplicare, con la diversità dei compensi e dei
regimi di vita, le distanze che l’industrializzazione ha creato
fra due grandi gruppi di classi sociali russe: le classi di chi
comanda e le classi di chi obbedisce.
E questa Russia di privilegi, di sperequazioni e di ingiustizie
che oscuramente nasce, non somiglierà molto al paradiso
bolscevico la cui immagine si è formata ed è rimasta, forse,
come una fotografia non sviluppata, entro quel cranio di avorio
che splende nel sottosuolo della Piazza Rossa.
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