Cesare Pavese – La Luna e i falò (Parte 8)

 

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XXIX.

 

In quei giorni venne un’altra notizia: era morta la vecchia del Nido. Irene non disse niente, ma si capí ch’era in calore, le tornò il sangue sulla faccia. Adesso che Cesarino poteva fare di testa sua, si sarebbe presto veduto che uomo era. Girarono tante voci – che l’erede era lui solo, ch’erano in molti, che la vecchia aveva lasciato tutto al vescovo e ai conventi.

Invece venne un notaio a vedere il Nido e le terre. Non parlò con nessuno, nemmeno con Tommasino. Diede gli ordini per i lavori, per i raccolti, per le semine. Nel Nido, fece l’inventario. Nuto, che venne allora in licenza per il grano, seppe tutto a Canelli. La vecchia aveva lasciati i beni ai figli di una nipote che non erano nemmeno conti, e nominato tutore il notaio. Cosí il Nido rimase chiuso, e Cesarino non tornò.

Io in quei giorni ero sempre con Nuto e parlavamo di tante cose, di Genova, dei soldati, della musica e di Bianchetta. Lui fumava e mi faceva fumare, mi diceva se non ero ancora stufo di pestare quei solchi, che il mondo è grande e c’è posto per tutti. Sulle storie di Silvia e d’Irene alzò le spalle e non disse niente.

Neanche Irene non disse niente sulle notizie del Nido. Continuò a essere magra e smorta e andava a sedersi con Santina sulla riva del Belbo. Si teneva il libro sulle ginocchia e guardava le piante. La domenica andavano a messa col velo nero in testa – la matrigna, Silvia, tutte insieme. Una domenica, dopo tanto tempo, risentii suonare il piano.

L’inverno prima, l’Emilia mi aveva prestato qualcuno dei romanzi d’Irene, che una ragazza di Canelli prestava a loro. Da un pezzo volevo seguire i consigli di Nuto e studiare qualcosa. Non ero piú un ragazzo che si accontenta di sentir parlare delle stelle e delle feste dei santi dopo cena sul trave. E lessi questi romanzi vicino al fuoco, per imparare. Dicevano di ragazze che avevano dei tutori, delle zie, dei nemici che le tenevano chiuse in belle ville con un giardino, dove c’erano cameriere che portavano biglietti, che davano veleni, che rubavano testamenti. Poi arrivava un bell’uomo che le baciava, un uomo a cavallo, e di notte la ragazza si sentiva soffocare, usciva nel giardino, la portavano via, si svegliava l’indomani in una cascina di boscaioli, dove il bell’uomo veniva a salvarla. Oppure la storia cominciava da un ragazzo scavezzacollo nei boschi, ch’era il figlio naturale del padrone di un castello dove succedevano dei delitti, degli avvelenamenti, e il ragazzo veniva accusato e messo in prigione, ma poi un prete dai capelli bianchi lo salvava e lo sposava all’ereditiera di un altro castello. Io mi accorsi che quelle storie le sapevo già da un pezzo, le aveva raccontate in Gaminella la Virgilia a me e alla Giulia – si chiamavano la storia della Bella dai capelli d’oro, che dormiva come una morta nel bosco e un cacciatore la svegliava baciandola; la storia del Mago dalle sette teste che, non appena una ragazza gli avesse voluto bene, diventava un bel giovanotto, figlio del re.

A me questi romanzi piacevano, ma possibile che piacessero anche a Irene, a Silvia, a loro ch’erano signore e non avevano mai conosciuta la Virgilia né pulito la stalla? Capii che Nuto aveva davvero ragione quando diceva che vivere in un buco o in un palazzo è lo stesso, che il sangue è rosso dappertutto, e tutti vogliono esser ricchi, innamorati, far fortuna. Quelle sere, tornando sotto le gaggie da casa di Bianchetta, ero contento, fischiavo, non pensavo piú nemmeno a saltare sul treno.

La signora Elvira tornò a invitare a cena Arturo, che stavolta si fece furbo e lasciò a casa l’amico toscano. Il sor Matteo non si oppose piú. Erano i tempi che Silvia non aveva ancora detto in che stato era tornata da Genova, e la vita alla Mora sembrava riprendere un po’ stracca ma solita. Arturo fece subito la corte a Irene; Silvia coi suoi capelli negli occhi lo guardava adesso con l’aria di chi se la ride, ma, quando Irene si metteva al piano, lei se ne andava di colpo e si appoggiava sul terrazzo o passeggiava per la campagna. Il parasole non usava piú, adesso le donne giravano già a capo scoperto, anche sotto il sole.

Irene non voleva saperne di Arturo. Lo trattava docile ma fredda, lo accompagnava nel giardino e al cancello, e quasi non si parlavano. Arturo era sempre lo stesso, aveva mangiato altri soldi a suo padre, strizzava l’occhio anche all’Emilia, ma si sapeva che fuori delle carte e del tirasegno non valeva un quattrino.

Fu l’Emilia che ci disse che Silvia era incinta. Lo seppe lei prima del padre e di tutti. La sera che il sor Matteo ebbe la nuova – glielo dissero Irene e la signora Elvira – invece di gridare si mise a ridere con un’aria maligna e si portò la mano sulla bocca. — Adesso, – ghignò tra le dita, – trovategli un padre —. Ma quando fece per alzarsi e entrare nella stanza di Silvia, gli girò la testa e andò giú. Da quel giorno restò mezzo secco, con la bocca storta.

Quando il sor Matteo uscí dal letto e poté fare qualche passo, Silvia aveva già provveduto. Era andata da una levatrice di Costigliole e s’era fatta ripulire. Non disse niente a nessuno. Si seppe poi due giorni dopo dov’era stata perché le rimase in tasca il biglietto del treno. Tornò con gli occhi cerchiati e con la faccia di una morta – si mise a letto e lo riempí di sangue. Morí senza dire una parola né al prete né agli altri, chiamava soltanto «papà» a voce bassa.

Per il funerale tagliammo tutti i fiori del giardino e delle cascine intorno. Era giugno e ce n’erano molti. La seppellirono senza che suo padre lo sapesse, ma lui sentí la litania del prete nella stanza vicino e si spaventò e cercava di dire che non era ancora morto. Quando poi uscí sul terrazzo sorretto dalla signora Elvira e dal padre di Arturo, aveva un berrettino sugli occhi e stette al sole, senza parlare. Arturo e suo padre si davano il cambio, gli erano sempre intorno.

Chi adesso non vedeva piú di buon occhio Arturo era la madre di Santina. Con la malattia del vecchio non le conveniva piú che Irene si sposasse e portasse via la dote. Era meglio se restava zitella in casa a far la madrina a Santina, e cosí un giorno la piccola sarebbe rimasta la padrona di tutto. Il sor Matteo non diceva piú niente, era assai se si ficcava il cucchiaio in bocca. I conti col massaro e con noialtri li faceva la signora e ficcava il naso dappertutto.

Ma Arturo fu in gamba e s’impose. Adesso, che Irene trovasse marito era un favore che lui le faceva, perché dopo la storia di Silvia tutti dicevano che le ragazze della Mora erano state puttane. Lui non lo disse, ma arrivava serio serio, teneva compagnia al vecchio, faceva le commissioni a Canelli col nostro cavallo, e alla domenica in chiesa dava l’acqua alla mano d’Irene. Era sempre intorno vestito di scuro, non portava piú gli stivali, e provvedeva le medicine. Prima ancora di sposarsi stava già in casa dal mattino alla sera e girava nei beni.

Irene lo accettò per andarsene, per non vedere piú il Nido sulla collina, per non sentire la matrigna brontolare e far scene. Lo sposò in novembre, l’anno dopo che Silvia era morta, e non fecero una gran festa per via del lutto e che il sor Matteo non parlava quasi piú. Partirono per Torino, e la signora Elvira si sfogò con la Serafina, con l’Emilia – non avrebbe mai creduto che una che lei teneva come figlia fosse tanto ingrata. Al matrimonio la piú bella e vestita di seta era Santina – non aveva che sei anni ma sembrava lei la sposa.

Io andavo soldato quella primavera e non m’importava piú molto della Mora. Arturo tornò e cominciò a comandare. Vendette il pianoforte, vendette il cavallo e diverse giornate di prato. Irene, che aveva creduto di andare a vivere in una casa nuova, si rimise intorno al padre e gli faceva le flanelle. Arturo adesso era sempre fuori; riprese a giocare e andare a caccia e offrir cene agli amici. L’anno dopo, l’unica volta che venni in licenza da Genova, la dote – metà della Mora – era già liquidata, e Irene viveva a Nizza in una stanza dove Arturo la batteva.

 

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XXX.

 

Ricordo una domenica d’estate – dei tempi che Silvia era viva e Irene giovane. Dovevo avere diciassette diciotto anni e cominciavo a girare i paesi. Era la festa del Buon Consiglio, di primo settembre. Con tutto il loro tè e le visite e gli amici, Silvia e Irene non potevano andarci – per non so che questione di vestiti e di dispetti non avevano voluto la compagnia solita, e adesso stavano distese sugli sdrai a guardare il cielo sopra la colombaia. Io quel mattino m’ero lavato bene il collo, cambiata la camicia e le scarpe, e tornavo dal paese per mangiare un boccone e poi saltare in bicicletta. Nuto era già al Buon Consiglio dal giorno prima perché suonava sul ballo.

Dal terrazzo Silvia mi chiese dove andavo. Aveva l’aria di voler chiacchierare. Di tanto in tanto lei mi parlava cosí, con un sorriso da bella ragazza, e in quei momenti mi pareva di non essere piú un servitore. Ma quel giorno avevo fretta e stavo sulle spine. Perché non prendevo il biroccio? mi disse Silvia. Arrivavo prima. Poi gridò a Irene: — Non vieni al Buon Consiglio anche tu? Anguilla ci porta e guarda il cavallo.

Mi piacque poco ma dovetti starci. Scesero col cestino della merenda, coi parasoli, con la coperta. Silvia era vestita di un abito a fiori e Irene di bianco. Salirono con le loro scarpette dal tacco alto e aprirono i parasoli. Mi ero lavato bene il collo e la schiena, e Silvia mi stava vicino sotto il parasole e sapeva di fiori. Le vedevo l’orecchio piccolo e rosa, forato per l’orecchino, la nuca bianca, e, dietro, la testa bionda d’Irene. Parlavano tra loro di quei giovanotti che venivano a trovarle, li criticavano e ridevano, e qualche volta, guardandomi, mi dicevano che non ascoltassi; poi tra loro indovinavano chi sarebbe venuto al Buon Consiglio. Quando attaccammo la salita, io scesi a terra per non stancare il cavallo, e Silvia tenne lei le briglie.

Andando mi chiedevano di chi era una casa, una cascina, un campanile, e io conoscevo la qualità delle uve nei filari ma i padroni non li sapevo. Ci voltammo a guardare il campanile di Calosso, mostrai da che parte restava adesso la Mora.

Poi Irene mi chiese se proprio non conoscevo i miei. Io le risposi che vivevo tranquillo lo stesso; e fu allora che Silvia mi guardò dalla testa ai piedi e, tutta seria, disse a Irene ch’ero un bel giovanotto, non sembravo neanche di qui. Irene, per non offendermi, disse che dovevo avere delle belle mani, e io subito le nascosi. Allora anche lei rise come Silvia.

Poi si rimisero a parlare dei loro dispetti e di vestiti, e arrivammo al Buon Consiglio, sotto gli alberi.

C’era una confusione di banchi di torrone, di bandierine, di carri e di bersagli e si sentivano di tanto in tanto gli schianti delle fucilate. Portai il cavallo all’ombra dei platani, dove c’erano le stanghe per legare, staccai il biroccio e allargai il fieno. Irene e Silvia chiedevano «Dov’è la corsa, dov’è?», ma c’era tempo, e allora si misero a cercare i loro amici. Io dovevo tener d’occhio il cavallo e intanto vedere la festa.

Era presto, Nuto non suonava ancora, ma si sentivano nell’aria gli strumenti strombettare, squittire, sbuffare, scherzare, ciascuno per conto suo. Trovai Nuto che beveva la gasosa coi ragazzi dei Seraudi. Stavano sullo spiazzo dietro la chiesa di dove si vedeva tutta la collina in faccia e le vigne bianche, le rive, fin lontano, le cascine dei boschi. La gente ch’era al Buon Consiglio veniva di lassú, dalle aie piú sperdute, e da piú lontano ancora, dalle chiesette, dai paesi oltre Mango, dove non c’erano che strade da capre e non passava mai nessuno. Erano venuti in festa sui carri, sulle vetture, in bicicletta e a piedi. Era pieno di ragazze, di donne vecchie che entravano in chiesa, di uomini che guardavano in su. I signori, le ragazze ben vestite, i bambini con la cravatta, aspettavano anche loro la funzione sulla porta della chiesa. Dissi a Nuto ch’ero venuto con Irene e Silvia e le vedemmo che ridevano in mezzo ai loro amici. Quell’abito a fiori era proprio il piú bello.

Con Nuto andammo a vedere i cavalli nelle stalle dell’osteria. Il Bizzarro della Stazione ci fermò sulla porta e ci disse di fare la guardia. Lui e gli altri sturarono una bottiglia che scappò mezza per terra. Ma non era per bersela. Versarono il vino, che friggeva ancora, in una scodella e lo fecero leccare a Laiolo ch’era nero come una mora, e quando lui ebbe sorbito gli piantarono quattro frustate col manico sulle gambe di dietro perché si svegliasse. Laiolo prese a sparar calci chinando la coda come un gatto. — Silenzio, – ci dissero, – vedrai che la bandiera è nostra.

In quel momento, sull’uscio arrivarono Silvia coi suoi giovanotti. — Se bevete già adesso, – disse uno grasso che rideva sempre, – invece dei cavalli correrete voi.

Il Bizzarro si mise a ridere e si asciugò il sudore col fazzoletto rosso. — Dovrebbero correre queste signorine, – disse, – sono piú leggere di noialtri.

Poi Nuto andò a suonare per la funzione della madonna. Si misero in fila davanti alla chiesa, la madonna usciva allora. Nuto ci strizzò l’occhio, sputò, si pulí con la mano e imboccò il clarino. Suonarono un pezzo che lo sentirono dal Mango.

A me piaceva su quello spiazzo, in mezzo ai platani, sentire la voce delle trombe e del clarino, vedere tutti che s’inginocchiavano, correvano, e la madonna uscire dondolando dal portone sulle spalle dei sacrestani. Poi uscirono i preti, i ragazzi col camiciolo, le vecchie, i signori, l’incenso, tutte quelle candele sotto il sole, i colori dei vestiti, le ragazze. Anche gli uomini e le donne dei banchi, quelli del torrone, del tirasegno, della giostra, tutti stavano a vedere, sotto i platani.

La madonna fece il giro dello spiazzo e qualcuno sparò i mortaretti. Vidi Irene bionda bionda che si turava le orecchie. Ero contento di averle portate io sul biroccio, di essere in festa con loro.

Andai un momento a raccogliere il fieno sotto il muso del cavallo, e mi fermai a guardare la nostra coperta, le sciarpe, il cestino.

Poi ci fu la corsa, e la musica suonò di nuovo mentre i cavalli scendevano sulla strada. Io con un occhio cercavo sempre il vestito a fiori e quello bianco, vedevo che parlavano e ridevano, cos’avrei dato per essere uno di quei giovanotti, e portarle anch’io a ballare.

La corsa passò due volte, in discesa e in salita, sotto i platani, e i cavalli facevano un rumore come la piena del Belbo; Laiolo lo portava un giovanotto che non conoscevo, stava chinato con la gobba e frustava da matto. Avevo vicino il Bizzarro che si mise a bestemmiare, poi gridò evviva quando un altro cavallo perse un passo e andò giú di muso come un sacco, poi di nuovo bestemmiò quando Laiolo alzò la testa e fece un salto; si strappò il fazzoletto dal collo, mi disse «Bastardo che sei» e i Seraudi ballavano e si davano zuccate come le capre; poi la gente cominciò a vociare da un’altra parte, il Bizzarro si buttò sul prato e fece una giravolta grosso com’era, picchiò in terra la testa; tutti urlarono ancora; aveva vinto un cavallo di Neive.

Dopo, Irene e Silvia le persi di vista. Feci il mio giro al tirasegno e alle carte, andai a sentire all’osteria i padroni dei cavalli che litigavano e bevevano una bottiglia dopo l’altra, e il parroco cercava di metterli d’accordo. Chi cantava, chi bestemmiava, chi mangiava già salame e formaggio. Di ragazze non ne venivano in quel cortile, sicuro.

A quest’ora Nuto e la musica eran già seduti sul ballo e attaccavano. Si sentiva suonare e ridere nel sereno, la sera era fresca e chiara, io giravo dietro le baracche, vedevo alzarsi i paraventi di sacco, giovanotti scherzavano, bevevano, qualcuno rivoltava già le sottane alle donne dei banchi. I ragazzi si chiamavano, si rubavano il torrone, facevano chiasso.

Andai a veder ballare sul palchetto sotto il tendone. I Seraudi ballavano già. C’erano anche le loro sorelle, ma io me ne stetti a guardare perché cercavo il vestito a fiori e quello bianco. Le vidi tutte e due nel chiaro dell’acetilene abbracciate coi loro giovanotti, le facce sulla spalla, e la musica suonava portandole. «Fossi Nuto», pensai. Andai sotto il banco di Nuto e lui fece riempire il bicchiere anche a me, come ai suonatori.

Mi trovò poi Silvia disteso nel prato, vicino al muso del cavallo. Stavo disteso e contavo le stelle in mezzo ai platani. Vidi di colpo la sua faccia allegra, il vestito a fiori, tra me e la volta del cielo. — È qui che dorme, — gridò.

Allora saltai su e i loro giovanotti facevano baccano e volevano che stessero ancora. Lontano, dietro la chiesa, delle ragazze cantavano. Uno si offrí di accompagnarle a piedi. Ma c’erano le altre signorine che dicevano: — E noi?

Partimmo al chiaro dell’acetilene, e poi nel buio della strada in discesa andai adagio, ascoltando gli zoccoli. Quel coro dietro la chiesa cantava sempre. Irene s’era fatta su in una sciarpa, Silvia parlava della gente, dei ballerini, dell’estate, criticava tutti e rideva. Mi chiesero se avevo anch’io la mia ragazza. Dissi ch’ero stato con Nuto, a guardar suonare.

Poi poco alla volta Silvia si calmò e un bel momento mi posò la testa sulla spalla, mi fece un sorriso e mi disse se la lasciavo stare cosí mentre guidavo. Io tenni le briglie, guardando le orecchie del cavallo.

 

* * *

 

XXXI.

 

Cinto se lo prese in casa Nuto, per fargli fare il falegname e insegnargli a suonare. Restammo d’accordo che, se il ragazzo metteva bene, a suo tempo gli avrei fatto io un posto a Genova. Un’altra cosa da decidere: portarlo in Alessandria all’ospedale, che il dottore gli vedesse la gamba. La moglie di Nuto protestò ch’erano già in troppi nella casa del Salto, tra garzoni e banchi a morsa, e poi non poteva stargli dietro. Le dicemmo che Cinto era giudizioso. Ma io lo presi ancora da parte e gli spiegai di stare attento, qui non era come la strada di Gaminella – davanti alla bottega passavano macchine, autocarri, moto, che andavano e venivano da Canelli – guardasse sempre prima di traversare.

Cosí Cinto trovò una casa da viverci, e io dovevo ripartire l’indomani per Genova. Passai la mattinata al Salto, e Nuto mi stava dietro e mi diceva: — Allora te ne vai. Non ritorni per la vendemmia?

— Magari m’imbarco, – gli dissi, – ritorno per la festa un altr’anno.

Nuto allungava il labbro, come fa lui. — Sei stato poco, – mi diceva, – non abbiamo neanche parlato.

Io ridevo. — Ti ho perfino trovato un altro figlio...

Levati da tavola, Nuto si decise. Pigliò al volo la giacca e guardò in su. — Andiamo attraverso, – borbottò, – questi sono i tuoi paesi.

Traversammo l’alberata, la passerella di Belbo, e riuscimmo sulla strada di Gaminella in mezzo alle gaggie.

— Non guardiamo la casa? – dissi. – Anche il Valino era un cristiano.

Salimmo il sentiero. Era uno scheletro di muri neri, vuoti, e adesso sopra i filari si vedeva il noce, enorme. — Sono rimaste soltanto le piante, – dissi, – valeva la pena che il Valino roncasse... La riva ha vinto.

Nuto stava zitto e guardava il cortile tutto pieno di pietre e di cenere. Io girai tra quelle pietre, e neanche il buco della cantina si trovava – la maceria l’aveva turato. Nella riva, degli uccelli facevano baccano e qualcuno svolava in libertà sulle viti. — Un fico me lo mangio, – dissi, – non fa piú danno a nessuno —. Presi il fico, e riconobbi quel sapore.

— La madama della Villa, – dissi, – sarebbe capace di farcelo sputare.

Nuto stava zitto e guardava la collina.

— Anche questi sono morti, – disse. — Quanti ne sono morti da quando sei partito dalla Mora.

Allora mi sedetti sul trave, ch’era ancora lo stesso, e gli dissi che di tutti i morti non potevo levarmi di mente le figlie del sor Matteo. — Passi Silvia, è morta in casa. Ma Irene con quel vagabondo... stentando come ha stentato... E Santina, chi sa com’è morta Santina...

Nuto giocava con delle pietruzze e guardò in su. — Non vuoi che andiamo a Gaminella in alto? Andiamoci, è presto.

Allora partimmo, e lui si mise avanti per i sentieri delle vigne. Riconoscevo la terra bianca, secca; l’erba schiacciata, scivolosa dei sentieri; e quell’odore rasposo di collina e di vigna, che sa già di vendemmia sotto il sole. C’erano in cielo delle lunghe strisce di vento, bave bianche, che parevano la colata che si vede di notte nel buio dietro le stelle. Io pensavo che domani sarei stato in viale Corsica e mi accorgevo in quel momento che anche il mare è venato con le righe delle correnti, e che da bambino guardando le nuvole e la strada delle stelle, senza saperlo avevo già cominciato i miei viaggi.

Nuto mi aspettò sul ciglione e disse: — Tu, Santa a vent’anni non l’hai vista. Valeva la pena, valeva. Era piú bella d’Irene, aveva gli occhi come il cuore del papavero... Ma una cagna, una cagna del boia...

— Possibile che abbia fatto quella fine...

Mi fermai a guardare in giú nella valle. Fin quassú non ero mai salito, da ragazzo. Si vedeva lontano fino alle casette di Canelli, e la stazione e il bosco nero di Calamandrana. Capivo che Nuto stava per dirmi qualcosa – e non so perché, mi ricordai del Buon Consiglio.

— Ci sono andato una volta con Silvia e Irene, – chiacchierai, – sul biroccio. Ero ragazzo. Di lassú si vedevano i paesi piú lontani, le cascine, i cortili, fin le macchie di verderame sopra le finestre. C’era la corsa dei cavalli e sembravamo tutti matti... adesso non mi ricordo nemmeno piú chi l’ha vinta. Mi ricordo soltanto quelle cascine sui bricchi e il vestito di Silvia, rosa e viola, a fiori...

— Anche Santa, – disse Nuto, – una volta s’è fatta accompagnare in festa a Bubbio. C’è stato un anno che lei veniva a ballare soltanto quando suonavo io. Era viva sua madre... stavano ancora alla Mora...

Si voltò e disse: — Si va?

Riprese a condurmi su per quei pianori. Di tanto in tanto si guardava intorno, cercava una strada. Io pensavo com’è tutto lo stesso, tutto ritorna sempre uguale – vedevo Nuto su un biroccio condurre Santa per quei bricchi alla festa, come avevo fatto io con le sorelle. Nei tufi sopra le vigne vidi il primo grottino, una di quelle cavernette dove si tengono le zappe, oppure, se fanno sorgente, c’è nell’ombra, sull’acqua, il capelvenere. Traversammo una vigna magra, piena di felce e di quei piccoli fiori gialli dal tronco duro che sembrano di montagna – avevo sempre saputo che si masticano e poi si mettono sulle scorticature per chiuderle. E la collina saliva sempre: avevamo già passato diverse cascine, e adesso eravamo fuori.

— Tanto vale che te lo dica, – fece Nuto d’improvviso senza levare gli occhi, – io so come l’hanno ammazzata. C’ero anch’io.

Si mise per la strada quasi piana che girava intorno a una cresta. Non dissi niente e lo lasciai parlare. Guardavo la strada, giravo appena la testa quando un uccello o un calabrone mi piombava addosso.

C’era stato un tempo, raccontò Nuto, che, quando lui passava a Canelli per quella strada dietro il cinema, guardava in su se le tendine si muovevano. La gente ne dice tante. Alla Mora ci stava già Nicoletto, e Santa, che non poteva soffrirlo, appena morta la madre era scappata a Canelli, s’era presa una stanza, e aveva fatto la maestra. Ma col tipo che lei era, aveva subito trovato da impiegarsi alla Casa del fascio, e dicevano di un ufficiale della milizia, dicevano di un podestà, del segretario, dicevano di tutti i piú delinquenti là intorno. Cosí bionda, cosí fina, era il suo posto salire in automobile e girare la provincia, andare a cena nelle ville, nelle case dei signori, alle terme d’Acqui – non fosse stata quella compagnia. Nuto cercava di non vederla per le strade, ma passando sotto le sue finestre alzava gli occhi alle tendine.

Poi con l’estate del ’43 la bella vita era finita anche per Santa. Nuto, ch’era sempre a Canelli a sentire notizie e a portarne, non aveva piú alzato gli occhi alle tendine. Dicevano che Santa era scappata col suo capomanipolo a Alessandria.

Poi era venuto settembre, tornati i tedeschi, tornata la guerra – i soldati arrivavano a casa per nascondersi, travestiti, affamati, scalzi, i fascisti sparavano fucilate tutta la notte, tutti dicevano: «Si sapeva che finiva cosí». Era cominciata la repubblica. Un bel giorno Nuto sentí dire che Santa era tornata a Canelli, che aveva ripreso l’impiego alla Casa del fascio, si ubriacava e andava a letto con le brigate nere.

 

* * *

 

XXXII.

 

Non ci aveva creduto. Fino alla fine non ci aveva creduto. La vide una volta traversare sul ponte, veniva dalla stazione, aveva indosso una pelliccia grigia e le scarpe felpate, gli occhi allegri dal freddo. Lei l’aveva fermato.

— Come va al Salto? suoni sempre?... Oh Nuto, avevo paura che fossi anche tu in Germania... Dev’essere brutto su di lí... Vi lasciano tranquilli?

A quei tempi traversare Canelli era sempre un azzardo. C’erano le pattuglie, i tedeschi. E una ragazza come Santa non avrebbe parlato in strada con un Nuto, non fosse stata la guerra. Lui quel giorno non era tranquillo, le disse soltanto dei sí e dei no.

Poi l’aveva riveduta al caffè dello Sport, lei stessa ce l’aveva chiamato uscendo sulla porta. Nuto teneva d’occhio le facce che entravano, ma era un mattino tranquillo, una domenica di sole che la gente va a messa.

— Tu m’hai vista quand’ero alta cosí, – diceva Santa, – tu mi credi. C’è della gente cattiva a Canelli. Se potessero mi darebbero fuoco... Non vogliono che una ragazza faccia una vita non da scema. Vorrebbero che facessi anch’io la fine d’Irene, che baciassi la mano che mi dà uno schiaffo. Ma io la mordo la mano che mi dà uno schiaffo... gentetta che non sono nemmeno capaci di fare i mascalzoni...

Santa fumava sigarette che a Canelli non si trovavano, gliene aveva offerte. — Prendine, – aveva detto, – prendile tutte. Siete in tanti a dover fumare, su di lí...

— Vedi com’è, – diceva Santa, – siccome una volta conoscevo qualcuno e ho fatto la matta, anche tu ti voltavi nelle vetrine quando passavo. Eppure hai conosciuto la mamma, sai come sono... mi portavi in festa... Credi che anch’io non ce l’abbia con quei vigliacchi di prima?... almeno questi si difendono... Adesso mi tocca vivere e mangiare il loro pane, perché il mio lavoro l’ho sempre fatto, nessuno mi ha mai mantenuta, ma se volessi dir la mia... se perdessi la pazienza...

Santa diceva queste cose al tavolino di marmo, guardando Nuto senza sorridere, con quella bocca delicata e sfacciata e gli occhi umidi offesi – come le sue sorelle. Nuto fece di tutto per capire se mentiva, le disse perfino che sono tempi che bisogna decidersi, o di là o di qua, e che lui s’era deciso, lui stava coi disertori, coi patrioti, coi comunisti. Avrebbe dovuto chiederle di fare per loro la spia nei comandi, ma non aveva osato – l’idea di mettere una donna in un pericolo cosí, e di metterci Santa, non poteva venirgli.

Invece a Santa l’idea venne e diede a Nuto molte notizie sui movimenti della truppa, sulle circolari del comando, sui discorsi che facevano i repubblichini. Un altro giorno gli mandò a dire che non venisse a Canelli perché c’era pericolo, e infatti i tedeschi razziarono le piazze e i caffè. Santa diceva che lei non rischiava nulla, ch’erano vecchie conoscenze vigliacche che venivano da lei a sfogarsi, e le avrebbero fatto schifo non fosse stato per le notizie che cosí poteva dare ai patrioti. Il mattino che i neri fucilarono i due ragazzi sotto il platano e ce li lasciarono come cani, Santa venne in bicicletta alla Mora e di là al Salto e parlò con la mamma di Nuto, le disse che se avevano un fucile o una pistola lo nascondessero nella riva. Due giorni dopo la brigata nera passò e buttò per aria la casa.

Venne il giorno che Santa prese Nuto a braccetto e gli disse che non ne poteva piú. Alla Mora non poteva tornare perché Nicoletto era insopportabile, e l’impiego di Canelli, dopo tutti quei morti, le scottava, le faceva perdere la ragione: se quella vita non finiva subito, lei dava di mano a una pistola e sparava a qualcuno – lei sapeva a chi – magari a se stessa.

— Andrei anch’io sulle colline, – gli disse, – ma non posso. Mi sparano appena mi vedono. Sono quella della Casa del fascio.

Allora Nuto la portò nella riva e la fece incontrare con Baracca. Disse a Baracca tutto quello che lei aveva già fatto. Baracca stette a sentire guardando in terra. Quando parlò disse soltanto: — Torna a Canelli.

— Ma no... – disse Santa.

— Torna a Canelli e aspetta gli ordini. Te ne daremo.

Due mesi dopo – la fine di maggio – Santa scappò da Canelli perché l’avevano avvertita che venivano a prenderla. Il padrone del cinema mi disse ch’era entrata una pattuglia di tedeschi a perquisirle la casa. A Canelli ne parlavano tutti. Santa scappò sulle colline e si mise coi partigiani. Nuto sapeva adesso sue notizie a caso, da chi passava di notte a fargli una commissione, e tutti dicevano che girava armata anche lei e si faceva rispettare. Non fosse stato della mamma vecchia e della casa che potevano bruciargli, Nuto sarebbe andato anche lui nelle bande per aiutarla.

Ma Santa non ne aveva bisogno. Quando ci fu il rastrellamento di giugno e per quei sentieri ne morirono tanti, Santa si difese tutta una notte con Baracca in una cascina dietro Superga e uscí lei sulla porta a gridare ai fascisti che li conosceva uno per uno tutti e non le facevano paura. La mattina dopo, lei e Baracca scapparono.

Nuto diceva queste cose a voce bassa, si soffermava ogni tanto guardandosi intorno; guardava le stoppie, le vigne vuote, il versante che riprendeva a salire; disse «Passiamo di qua». Il punto dov’eravamo arrivati adesso, nemmeno si vedeva dal Belbo; tutto era piccolo, annebbiato, lontano, ci stavano intorno soltanto costoni e grosse cime, a distanza. — Lo sapevi che Gaminella è cosí larga? — mi disse.

Ci fermammo in co’ d’una vigna, in una conca riparata da gaggie. C’era una casa diroccata, nera. Nuto disse in fretta: — Ci sono stati i partigiani. La cascina l’hanno bruciata i tedeschi.

— Sono venuti due ragazzi a prendermi al Salto una sera, armati, li conoscevo. Abbiamo fatta questa strada di oggi. Camminammo ch’era già notte, non sapevano dirmi che cosa Baracca volesse. Passando sotto le cascine i cani abbaiavano, nessuno si muoveva, non c’erano lumi, sai come andava a quei tempi. Io non ero tranquillo.

Nuto aveva visto acceso sotto il portico. Vide una moto nel cortile, delle coperte. Ragazzi, pochi – l’accampamento l’avevano in quei boschi laggiú.

Baracca gli disse che l’aveva fatto chiamare per dargli una notizia, brutta. C’erano le prove che la loro Santa faceva la spia, che i rastrellamenti di giugno li aveva diretti lei, che il comitato di Nizza l’aveva fatto cader lei, che perfino dei prigionieri tedeschi avevano portato i suoi biglietti e segnalato dei depositi alla Casa del fascio. Baracca era un ragioniere di Cuneo, uno in gamba ch’era stato anche in Africa e parlava poco – era poi morto con quelli delle Ca’ Nere. Disse a Nuto che però non capiva perché Santa si fosse difesa con lui quella notte del rastrellamento. — Sarà perché gliele fai buone, — disse Nuto, ma era disperato, gli tremava la voce.

Baracca gli disse che Santa le faceva buone lei a chi voleva. Anche questo era successo. Fiutando il pericolo, aveva fatto l’ultimo colpo e portato con sé due ragazzi dei migliori. Adesso si trattava di pigliarla a Canelli. C’era già l’ordine scritto.

— Baracca mi tenne tre giorni lassú, un po’ per sfogarsi a parlarmi di Santa, un po’ per esser certo che non mi mettevo in mezzo. Un mattino Santa tornò, accompagnata. Non aveva piú la giacca a vento e i pantaloni che aveva portato tutti quei mesi. Per uscire da Canelli s’era rimesso un vestito da donna, un vestito chiaro da estate, e quando i partigiani l’avevano fermata su per Gaminella era cascata dalle nuvole... Portava delle notizie di circolari repubblichine. Non serví a niente. Baracca in presenza nostra le fece il conto di quanti avevano disertato per istigazione sua, quanti depositi avevamo perduto, quanti ragazzi aveva fatto morire. Santa stava a sentire, disarmata, seduta su una sedia. Mi fissava con gli occhi offesi, cercando di cogliere i miei... Allora Baracca le lesse la sentenza e disse a due di condurla fuori. Erano piú stupiti i ragazzi che lei. L’avevano sempre veduta con la giacchetta e la cintura, e non si capacitavano adesso di averla in mano vestita di bianco. La condussero fuori. Lei sulla porta si voltò, mi guardò e fece una smorfia come i bambini... Ma fuori cercò di scappare. Sentimmo un urlo, sentimmo correre, e una scarica di mitra che non finiva piú. Uscimmo anche noi, era distesa in quell’erba davanti alle gaggie.

Io piú che Nuto vedevo Baracca, quest’altro morto impiccato. Guardai il muro rotto, nero, della cascina, guardai in giro, e gli chiesi se Santa era sepolta lí.

— Non c’è caso che un giorno la trovino? hanno trovato quei due...

Nuto s’era seduto sul muretto e mi guardò col suo occhio testardo. Scosse il capo. — No, Santa no, – disse, – non la trovano. Una donna come lei non si poteva coprirla di terra e lasciarla cosí. Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò.

 

* * *

 

FINE