Cesare Pavese – La Luna e i falò (Parte 7)

 

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XXV.

 

Irene non la vidi mai disperata come la sorella, ma quando da due giorni non la chiamavano al Nido, se ne stava nervosa dietro la griglia del giardino oppure andava con un libro o il ricamo a sedersi nella vigna insieme a Santina, e di là guardava la strada. Quando partiva col parasole verso Canelli, era felice. Che cosa si dicessero con quel Cesarino, quel morto in piedi, non lo so; una volta ch’ero passato pedalando da matto verso Canelli e li avevo intravisti in mezzo alle gaggie, m’era parso che Irene, in piedi, leggesse in un libro e Cesarino seduto sulla proda davanti a lei la guardava.

Alla Mora un giorno era ricomparso quell’Arturo dagli stivali, s’era fermato sotto la terrazza, aveva parlato con Silvia che di lassú scrutava la strada, ma Silvia non l’aveva invitato a salire, gli aveva detto solamente che la giornata era pesante e quelle scarpe dal tacco basso – alzò un piede – a Canelli adesso si trovavano.

Arturo aveva chiesto strizzando l’occhio se suonavano i ballabili, se Irene suonava sempre. — Chiedilo a lei, — disse Silvia e guardò oltre il pino.

Irene non suonava quasi piú. Pare che al Nido non ci fossero pianoforti, che la vecchia non volesse saperne di vedere una ragazza slogarsi le mani sulla tastiera. Quando Irene andava in visita dalla vecchia, si prendeva la borsa col ricamo dentro, una grossa borsa ricamata di fiori verdi di lana, e nella borsa riportava a casa qualche libro del Nido che la vecchia le dava da leggere. Erano vecchi libri, foderati con del cuoio. Lei portava invece alla vecchia il giornale illustrato delle sarte – lo faceva comprare apposta a Canelli, tutte le settimane.

La Serafina e l’Emilia dicevano che Irene tirava il rocco a diventare contessa e che una volta il sor Matteo aveva detto: — State attente, ragazze. Ci sono dei vecchi che non muoiono mai.

Era difficile capire quanti parenti avesse a Genova la contessa – si diceva perfino che ce ne fosse uno vescovo. Avevo sentito raccontare che ormai la vecchia non teneva piú servitori né domestiche in casa, le bastavano le nipoti e i nipoti. Se era cosí, non capivo che speranze Irene aveva; per bene che le andasse, quel Cesarino doveva dividere con tutti. A meno che Irene si accontentasse di far la serva nel Nido. Ma quando mi guardavo intorno nei nostri beni – la stalla, i fienili, il grano, le uve – pensavo che forse Irene era piú ricca di lui e che magari Cesarino le parlava per metter lui le mani sulla sua dote. Quest’idea, pur facendomi rabbia, mi piacque di piú – mi pareva impossibile che Irene fosse tanto interessata da darsi via per ambizione, cosí.

Ma allora, dicevo, si vede proprio che è innamorata, che Cesarino le piace, ch’è l’uomo che lei muore di sposare. E avrei voluto poterle parlare, poterle dire che stesse attenta, che non si sprecasse con quella mezza cartuccia, con uno scemo che non usciva neanche dal Nido e stava seduto per terra mentre lei leggeva un libro. Almeno Silvia non sprecava cosí per niente le giornate e andava con qualcuno che valeva la pena. Se non fosse ch’ero soltanto un garzone e non avevo diciott’anni, magari Silvia sarebbe venuta anche con me.

Irene ci soffriva, anche. Quel contino doveva essere peggio di una ragazza mal allevata. Faceva i capricci, si faceva servire, sfruttava con cattiveria il nome della vecchia, e a tutto quanto Irene gli diceva o domandava rispondeva che no, che bisognava sentire, non fare passi sbagliati, tener presente chi era lui, la sua salute, i suoi gusti. Adesso era Silvia, le poche volte che non scappava sui bricchi o non si chiudeva dentro casa, a ascoltare i sospiri di Irene. A tavola – diceva l’Emilia – Irene teneva gli occhi bassi e Silvia li piantava in faccia a suo padre come avesse la febbre. Soltanto la signora Elvira discorreva asciutta asciutta, puliva il mento della Santina, accennava maligna all’occasione perduta del figlio del medico, a quel toscano, agli ufficiali, agli altri, a certe ragazze di Canelli piú giovani che già s’erano sposate e stavano per far battezzare. Il sor Matteo borbottava, non sapeva mai niente.

Intanto la storia di Silvia andava avanti. Quando non era disperata, incagnita, e si fermava nel cortile, nella vigna, era un piacere vederla, sentirla parlare. Certi giorni si faceva attaccare il biroccio e partiva sola, andava a Canelli, lo guidava lei come un uomo. Una volta chiese a Nuto se sarebbe andato a suonare al Buon Consiglio dove facevano la corsa dei cavalli – e voleva a tutti i costi comprare una sella a Canelli, imparare a montare il cavallo e correre con gli altri. Toccò a massaro Lanzone spiegarle che un cavallo che tira il biroccio ha dei vizi e non può correre una corsa. Si seppe poi che al Buon Consiglio Silvia voleva andare per trovarci quel Matteo e fargli vedere che sapeva stare a cavallo anche lei.

Questa ragazza, dicevamo noialtri, va a finire che si veste da uomo, corre le fiere e fa i giochi sulle corde. Giusto quell’anno era comparso a Canelli un baraccone dove c’era una giostra fatta di motociclette che giravano con un fracasso peggio della battitrice, e chi dava i biglietti era una donna magra e rossa, sui quaranta, che aveva le dita piene di anelli e fumava la sigaretta. Sta’ a vedere, dicevamo, che Matteo di Crevalcuore, quand’è stufo, mette Silvia a comandare una giostra cosí. Si diceva anche a Canelli che bastava, pagando il biglietto, piantare la mano in un certo modo sul banco e la rossa ti diceva subito l’ora che potevi tornare, entrare in quel carrozzone delle tendine e far l’amore con lei sulla paglia. Ma Silvia non era ancora a questo punto. Per quanto fosse come matta, era matta di capriccio per Matteo, ma cosí bella e cosí sana che molti l’avrebbero sposata anche adesso.

Succedevano cose da pazzi. Adesso lei e Matteo si trovavano in un casotto di vigna ai Seraudi, un casotto mezzo sfondato, sull’orlo di una riva dove la motocicletta non poteva arrivare, ma loro ci andavano a piedi e s’erano portata la coperta e i cuscini. Né alla Mora né a Crevalcuore quel Matteo si faceva vedere con Silvia – non era mica per salvare il nome a lei ma per non essere preso di mezzo e doversi impegnare. Sapeva di non voler mantenere, e cosí si salvava la faccia.

Io cercavo di cogliere sulla faccia di Silvia i segni di quel che faceva con Matteo. Quel settembre quando ci mettemmo a vendemmiare, vennero come negli anni passati sia lei che Irene nella vigna bianca, e io la guardavo accovacciata sotto le viti, le guardavo le mani che cercavano i grappoli, le guardavo la piega dei fianchi, la vita, i capelli negli occhi, e quando scendeva il sentiero guardavo il passo, il sobbalzo, lo scatto della testa – la conoscevo tutta quanta, dai capelli alle unghie dei piedi, eppure mai che potessi dire «Ecco, è cambiata, c’è passato Matteo». Era la stessa – era Silvia.

Quella vendemmia fu per la Mora l’ultima allegria dell’anno. Ai Santi Irene si mise a letto, venne il dottore da Canelli, venne quello della Stazione – Irene aveva il tifo e ci moriva. Mandarono Santina in Alba con Silvia dai parenti, per salvarle dall’infezione. Silvia non voleva ma poi si rassegnò. Adesso correre toccò alla matrigna e all’Emilia. C’era una stufa sempre accesa nelle stanze di sopra, cambiavano Irene di letto due volte al giorno, lei straparlava, le facevano delle punture, perdeva i capelli. Noi andavamo e venivamo da Canelli per medicine. Fin che un giorno entrò una monaca in cortile; Cirino disse — Non arriva a Natale —; e l’indomani c’era il prete.

 

* * *

 

XXVI.

 

Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta? Per tanti anni mi era bastata una ventata di tiglio la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo davvero io, non sapevo nemmeno bene perché. Una cosa che penso sempre è quanta gente deve viverci in questa valle e nel mondo che le succede proprio adesso quello che a noi toccava allora, e non lo sanno, non ci pensano. Magari c’è una casa, delle ragazze, dei vecchi, una bambina – e un Nuto, un Canelli, una stazione, c’è uno come me che vuole andarsene via e far fortuna – e nell’estate battono il grano, vendemmiano, nell’inverno vanno a caccia, c’è un terrazzo – tutto succede come a noi. Dev’essere per forza cosí. I ragazzi, le donne, il mondo, non sono mica cambiati. Non portano piú il parasole, la domenica vanno al cinema invece che in festa, dànno il grano all’ammasso, le ragazze fumano – eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro sarà tutto passato. La prima cosa che dissi, sbarcando a Genova in mezzo alle case rotte dalla guerra, fu che ogni casa, ogni cortile, ogni terrazzo, è stato qualcosa per qualcuno e, piú ancora che al danno materiale e ai morti, dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti cosí in una notte senza lasciare un segno. O no? Magari è meglio cosí, meglio che tutto se ne vada in un falò d’erbe secche e che la gente ricominci. In America si faceva cosí – quando eri stufo di una cosa, di un lavoro, di un posto, cambiavi. Laggiú perfino dei paesi intieri con l’osteria, il municipio e i negozi adesso sono vuoti, come un camposanto.

Nuto non parla volentieri della Mora, ma mi chiese diverse volte se non avevo piú visto nessuno. Lui pensava a quei ragazzi di là intorno, ai soci delle bocce, del pallone, dell’osteria, alle ragazze che facevamo ballare. Di tutti sapeva dov’erano, che cosa avevano fatto; adesso, quando eravamo alla casa del Salto e ne passava qualcuno sullo stradone, lui gli diceva con l’occhio del gatto: — E questo qui lo conosci ancora? — Poi si godeva la faccia e la meraviglia dell’altro e ci versava da bere a tutti e due. Discorrevamo. Qualcuno mi dava del voi. — Sono Anguilla, – interrompevo, – che storie. Tuo fratello, tuo padre, tua nonna, che fine hanno fatto? È poi morta la cagna?

Non erano cambiati gran che; io, ero cambiato. Si ricordavano di cose che avevo fatto e avevo detto, di scherzi, di botte, di storie che avevo dimenticato. — E Bianchetta? – mi disse uno, – te la ricordi Bianchetta? — Sí che la ricordavo. — Si è sposata ai Robini, – mi dissero, – sta bene.

Quasi ogni sera Nuto veniva a prendermi all’Angelo, mi cavava dal crocchio di dottore, segretario, maresciallo e geometri, e mi faceva parlare. Andavamo come due frati sotto la lea del paese, si sentivano i grilli, l’arietta di Belbo – ai nostri tempi in quell’ora in paese non c’eravamo mai venuti, facevamo un’altra vita.

Sotto la luna e le colline nere Nuto una sera mi domandò com’era stato imbarcarmi per andare in America, se ripresentandosi l’occasione e i vent’anni l’avrei fatto ancora. Gli dissi che non tanto era stata l’America quanto la rabbia di non essere nessuno, la smania, piú che di andare, di tornare un bel giorno dopo che tutti mi avessero dato per morto di fame. In paese non sarei stato mai altro che un servitore, che un vecchio Cirino (anche lui era morto da un pezzo, s’era rotta la schiena cadendo da un fienile e aveva ancora stentato piú di un anno) e allora tanto valeva provare, levarmi la voglia, dopo che avevo passata la Bormida, di passare anche il mare.

— Ma non è facile imbarcarsi, – disse Nuto. – Hai avuto del coraggio.

Non era stato coraggio, gli dissi, ero scappato. Tanto valeva raccontargliela.

— Ti ricordi i discorsi che facevamo con tuo padre nella bottega? Lui diceva già allora che gli ignoranti saranno sempre ignoranti, perché la forza è nelle mani di chi ha interesse che la gente non capisca, nelle mani del governo, dei neri, dei capitalisti... Qui alla Mora era niente, ma quand’ho fatto il soldato e girato i carrugi e i cantieri a Genova ho capito cosa sono i padroni, i capitalisti, i militari... Allora c’erano i fascisti e queste cose non si potevano dire... Ma c’erano anche gli altri...

Non gliel’avevo mai raccontata per non tirarlo su quel discorso che tanto era inutile e adesso dopo vent’anni e tante cose successe non sapevo nemmeno piú io che cosa credere, ma a Genova quell’inverno ci avevo creduto e quante notti avevamo passato nella serra della villa a discutere con Guido, con Remo, con Cerreti e tutti gli altri. Poi Teresa s’era spaventata, non aveva piú voluto lasciarci entrare e allora le avevo detto che lei continuasse pure a far la serva, la sfruttata, se lo meritava, noi volevamo tener duro e resistere. Cosí avevamo continuato a lavorare in caserma, nelle bettole e, una volta congedati, nei cantieri dove trovavamo lavoro e nelle scuole tecniche serali. Teresa adesso mi ascoltava paziente e mi diceva che facevo bene a studiare, a volermi portare avanti, e mi dava da mangiare in cucina. Su quel discorso non tornava piú. Ma una notte venne Cerreti a avvertirmi che Guido e Remo erano stati arrestati, e cercavano gli altri. Allora Teresa, senza farmi un rimprovero, parlò lei con qualcuno – cognato, passato padrone, non so – e in due giorni mi aveva trovato un posto di fatica su un bastimento che andava in America. Cosí era stato, dissi a Nuto.

— Vedi com’è, – disse lui. – Alle volte basta una parola sentita quando si è ragazzi, anche da un vecchio, da un povero meschino come mio padre, per aprirti gli occhi... Sono contento che non pensavi soltanto a far soldi... E quei compagni, di che morte sono morti?

Andavamo cosí, sullo stradone fuori del paese, e parlavamo del nostro destino. Io tendevo l’orecchio alla luna e sentivo scricchiolare lontano la martinicca di un carro – un rumore che sulle strade d’America non si sente piú da un pezzo. E pensavo a Genova, agli uffici, a che cosa sarebbe stata la mia vita se quel mattino nel cantiere di Remo avessero trovato anche me. Tra pochi giorni tornavo in viale Corsica. Per quest’estate era finita.

Qualcuno correva sullo stradone nella polvere, sembrava un cane. Vidi ch’era un ragazzo: zoppicava e ci correva incontro. Mentre capivo ch’era Cinto, fu tra noi, mi si buttò tra le gambe e mugolava come un cane.

— Cosa c’è?

Lí per lí non gli credemmo. Diceva che suo padre aveva bruciato la casa. — Proprio lui, figurarsi, — disse Nuto.

— Ha bruciato la casa, – ripeteva Cinto. – Voleva ammazzarmi... Si è impiccato... ha bruciato la casa...

— Avranno rovesciato la lampada, — dissi.

— No no, – gridò Cinto, – ha ammazzato Rosina e la nonna. Voleva ammazzarmi ma non l’ho lasciato... Poi ha dato fuoco alla paglia e mi cercava ancora, ma io avevo il coltello e allora si è impiccato nella vigna...

Cinto ansava, mugolava, era tutto nero e graffiato. S’era seduto nella polvere sui miei piedi, mi stringeva una gamba e ripeteva: — Il papà si è impiccato nella vigna, ha bruciato la casa... anche il manzo. I conigli sono scappati, ma io avevo il coltello... È bruciato tutto, anche il Piola ha visto…

 

* * *

 

XXVII.

 

Nuto lo prese per le spalle e lo alzò su come un capretto.

— Ha ammazzato Rosina e la nonna?

Cinto tremava e non poteva parlare.

— Le ha ammazzate? — e lo scrollò.

— Lascialo stare, – dissi a Nuto, – è mezzo morto. Perché non andiamo a vedere?

Allora Cinto si buttò sulle mie gambe e non voleva saperne.

— Sta’ su, – gli dissi, – chi venivi a cercare?

Veniva da me, non voleva tornare nella vigna. Era corso a chiamare il Morone e quelli del Piola, li aveva svegliati tutti, altri correvano già dalla collina, aveva gridato che spegnessero il fuoco, ma nella vigna non voleva tornare, aveva perduto il coltello.

— Noi non andiamo nella vigna, – gli dissi. – Ci fermiamo sulla strada, e Nuto va su lui. Perché hai paura? Se è vero che sono corsi dalle cascine, a quest’ora è tutto spento...

C’incamminammo tenendolo per mano. La collina di Gaminella non si vede dalla lea, è nascosta da uno sperone. Ma appena si lascia la strada maestra e si scantona sul versante che strapiomba nel Belbo, un incendio si dovrebbe vederlo tra le piante. Non vedemmo nulla, se non la nebbia della luna.

Nuto, senza parlare, diede uno strattone al braccio di Cinto, che incespicò. Andammo avanti, quasi correndo. Sotto le canne si capí che qualcosa era successo. Di lassú si sentiva vociare e dar dei colpi come abbattessero un albero, e nel fresco della notte una nuvola di fumo puzzolente scendeva sulla strada.

Cinto non fece resistenza, venne su affrettando il passo col nostro, stringendomi piú forte le dita. Gente andava e veniva e si parlava, lassú al fico. Già dal sentiero, nella luce della luna, vidi il vuoto dov’era stato il fienile e la stalla, e i muri bucati del casotto. Riflessi rossi morivano a piede del muro, sprigionando una fumata nera. C’era un puzzo di lana, carne e letame bruciato che prendeva alla gola. Mi scappò un coniglio tra i piedi.

Nuto, fermo al livello dell’aia, storse la faccia e si portò i pugni sulle tempie. — Quest’odore, – borbottò, – quest’odore.

L’incendio era ormai finito, tutti i vicini erano corsi a dar mano; c’era stato un momento, dicevano, che la fiamma rischiarava anche la riva e se ne vedevano i riflessi nell’acqua di Belbo. Niente s’era salvato, nemmeno il letame là dietro.

Qualcuno corse a chiamare il maresciallo; mandarono una donna a prendere da bere al Morone; facemmo bere un po’ di vino a Cinto. Lui chiedeva dov’era il cane, se era bruciato anche lui. Tutti dicevano la loro; sedemmo Cinto nel prato e raccontò a bocconi la storia.

Lui non sapeva, era sceso a Belbo. Poi aveva sentito che il cane abbaiava, che suo padre attaccava il manzo. Era venuta la madama della Villa con suo figlio, a dividere i fagioli e le patate. La madama aveva detto che due solchi di patate eran già stati cavati, che bisognava risarcirla, e la Rosina aveva gridato, il Valino bestemmiava, la madama era entrata in casa per far parlare anche la nonna, mentre il figlio sorvegliava i cesti. Poi avevano pesato le patate e i fagioli, s’erano messi d’accordo guardandosi di brutto. Avevano caricato sul carretto e il Valino era andato in paese.

Ma poi la sera quand’era tornato era nero. S’era messo a gridare con Rosina, con la nonna, perché non avevano raccolto prima i fagioli verdi. Diceva che adesso la madama mangiava i fagioli che sarebbero toccati a loro. La vecchia piangeva sul saccone.

Lui Cinto stava sulla porta, pronto a scappare. Allora il Valino s’era tolta la cinghia e aveva cominciato a frustare Rosina. Sembrava che battesse il grano. Rosina s’era buttata contro la tavola e urlava, si teneva le mani sul collo. Poi aveva fatto un grido piú forte, era caduta la bottiglia, e Rosina tirandosi i capelli s’era buttata sulla nonna e l’abbracciava. Allora il Valino le aveva dato dei calci – si sentivano i colpi – dei calci nelle costole, la pestava con le scarpe, Rosina era caduta per terra, e il Valino le aveva ancora dato dei calci nella faccia e nello stomaco.

Rosina era morta, disse Cinto, era morta e perdeva sangue dalla bocca. — Tírati su, – diceva il padre, – matta —. Ma Rosina era morta, e anche la vecchia adesso stava zitta.

Allora il Valino aveva cercato lui – e lui via. Dalla vigna non si sentiva piú nessuno, se non il cane che tirava il filo e correva su e giú.

Dopo un poco il Valino s’era messo a chiamare Cinto. Cinto dice che si capiva dalla voce che non era per batterlo, che lo chiamava soltanto. Allora aveva aperto il coltello e si era fatto nel cortile. Il padre sulla porta aspettava, tutto nero. Quando l’aveva visto col coltello, aveva detto «Carogna» e cercato di acchiapparlo. Cinto era di nuovo scappato.

Poi aveva sentito che il padre dava calci dappertutto, che bestemmiava e ce l’aveva col prete. Poi aveva visto la fiamma.

Il padre era uscito fuori con la lampada in mano, senza vetro. Era corso tutt’intorno alla casa. Aveva dato fuoco anche al fienile, alla paglia, aveva sbattuto la lampada contro la finestra. La stanza dove s’erano picchiati era già piena di fuoco. Le donne non uscivano, gli pareva di sentir piangere e chiamare.

Adesso tutto il casotto bruciava e Cinto non poteva scendere nel prato perché il padre l’avrebbe visto come di giorno. Il cane diventava matto, abbaiava e strappava il filo. I conigli scappavano. Il manzo bruciava anche lui nella stalla.

Il Valino era corso nella vigna, cercando lui, con una corda in mano. Cinto, sempre stringendo il coltello, era scappato nella riva. Lí c’era stato, nascosto, e vedeva in alto contro le foglie il riflesso del fuoco.

Anche di lí si sentiva il rumore della fiamma come un forno. Il cane ululava sempre. Anche nella riva era chiaro come di giorno. Quando Cinto non aveva piú sentito né il cane né altro, gli pareva di essersi svegliato in quel momento, non si ricordava che cosa facesse nella riva. Allora piano piano era salito verso il noce, stringendo il coltello aperto, attento ai rumori e ai riflessi del fuoco. E sotto la volta del noce aveva visto nel riverbero pendere i piedi di suo padre, e la scaletta per terra.

Dovette ripetere tutta questa storia al maresciallo e gli fecero vedere il padre morto disteso sotto un sacco, se lo riconosceva. Fecero un mucchio delle cose ritrovate sul prato – la falce, una carriola, la scaletta, la museruola del manzo e un crivello. Cinto cercava il suo coltello, lo chiedeva a tutti e tossiva nel puzzo di fumo e di carne. Gli dicevano che l’avrebbe trovato, che anche i ferri delle zappe e delle vanghe, quando la brace fosse spenta, si sarebbero potuti riprendere. Noi portammo Cinto al Morone, era quasi mattino; gli altri dovevano cercare nella cenere quel che restava delle donne.

Nel cortile del Morone nessuno dormiva. Era aperto e acceso in cucina, le donne ci offrirono da bere; gli uomini si sedettero a colazione. Faceva fresco, quasi freddo. Io ero stufo di discussioni e di parole. Tutti dicevano le medesime cose. Restai con Nuto a passeggiare nel cortile, sotto le ultime stelle, e vedevamo di lassú nell’aria fredda, quasi viola, i boschi d’albere nella piana, il luccichío dell’acqua. Me l’ero dimenticato che l’alba è cosí.

Nuto passeggiava aggobbito, con gli occhi a terra. Gli dissi subito che a Cinto dovevamo pensar noi, che tanto valeva l’avessimo fatto già prima. Lui levò gli occhi gonfi e mi guardò – mi parve mezzo insonnolito.

Il giorno dopo ci fu da farsi brutto sangue. Sentii dire in paese che la madama era furente per la sua proprietà, che visto che Cinto era il solo vivo della famiglia, pretendeva che Cinto la risarcisse, pagasse, lo mettessero dentro. Si seppe ch’era andata a consigliarsi dal notaio e che il notaio l’aveva dovuta ragionare per un’ora. Poi era corsa anche dal prete.

Il prete la fece piú bella. Siccome il Valino era morto in peccato mortale, non volle saperne di benedirlo in chiesa. Lasciarono la sua cassa fuori sui gradini, mentre il prete dentro borbottava su quelle quattro ossa nere delle donne, chiuse in un sacco. Tutto si fece verso sera, di nascosto. Le vecchie del Morone, col velo in testa, andarono coi morti al camposanto raccogliendo per strada margherite e trifoglio. Il prete non ci venne perché – ripensandoci – anche la Rosina era vissuta in peccato mortale. Ma questo lo disse soltanto la sarta, una vecchia lingua.

 

* * *

 

XXVIII.

 

Irene non morì del tifo quell’inverno. Mi ricordo che nella stalla o alla pioggia dietro l’aratro, fin che Irene fu in pericolo, io cercavo di non piú bestemmiare, di pensar bene, per aiutarla – cosí la Serafina diceva di fare. Ma non so se l’abbiamo aiutata, forse era meglio che morisse quel giorno che il prete era venuto a benedirla. Perché, quando in gennaio finalmente uscí e la portarono magra magra in biroccio a sentir messa a Canelli, quel Cesarino era partito per Genova da un pezzo, senza aver chiesto o fatto chiedere neanche una volta sue nuove. E il Nido era chiuso.

Anche Silvia tornando ebbe una grossa delusione ma, per quanto tutti dicessero, ci soffrí meno. Silvia era già avvezza a queste cattiverie e sapeva come prenderle e rifarsi.

Il suo Matteo s’era messo con un’altra. Silvia non era tornata subito in gennaio da Alba, e perfino alla Mora cominciavamo a dire che se non tornava c’era un motivo – si capisce, era incinta. Quelli che andavano al mercato in Alba dicevano che Matteo di Crevalcuore passava certi giorni in piazza sulla moto come una schioppettata, o davanti al caffè. Mai che li vedessero scappare abbracciati insieme, o anche soltanto incontrarsi. Dunque Silvia non poteva uscire, dunque era incinta. Fatto sta che Matteo, quando lei nella bella stagione tornò, s’era già presa un’altra donna, la figlia del caffettiere di Santo Stefano, e ci passava le notti. Silvia tornò con Santina per mano, dallo stradone: nessuno era andato a prenderle al treno, e si fermarono in giardino a toccare le prime rose. Parlottavano insieme come fossero madre e figlia, rosse in faccia dalla camminata.

Chi invece adesso era smorta e sottile, e aveva gli occhi sempre a terra, era Irene. Sembrava quelle freddoline che vengono nei prati dopo la vendemmia o l’erba che continua a vivere sotto una pietra. Portava i capelli sotto un fazzoletto rosso, mostrava il collo e le orecchie nude. L’Emilia diceva che non avrebbe mai piú avuto la testa di prima – che la bionda adesso sarebbe stata Santina che aveva una testa anche piú bella d’Irene. E Santina sapeva già di valere, quando si metteva dietro la griglia per farsi guardare, o veniva tra noi nel cortile, sui sentieri, e chiacchierava con le donne. Io le chiedevo che cosa avevano fatto in Alba, che cosa aveva fatto Silvia, e lei se ne aveva voglia rispondeva che stavano in una bella casa coi tappeti, davanti alla chiesa, e certi giorni venivano le signore, i bambini, le bambine, e giocavano mangiavano le paste dolci, poi una sera erano andate al teatro con la zia e con Nicoletto, e tutti vestivano bene, le bambine andavano a scuola dalle monache, e un altr’anno ci sarebbe andata anche lei. Della giornata di Silvia non mi riuscí di sapere gran che, ma doveva aver ballato molto con gli ufficiali. Malata non era stata mai.

Ripresero a venire alla Mora a trovarle i giovanotti e le amiche di prima. Quell’anno Nuto andò soldato, io adesso ero un uomo e non succedeva piú che il massaro mi menasse una cinghiata o qualcuno mi dicesse bastardo. Ero conosciuto in molte cascine là intorno; andavo e venivo di sera, di notte; parlavo a Bianchetta. Cominciavo a capire tante cose – l’odore dei tigli e delle gaggie aveva un senso anche per me, adesso sapevo che cos’era una donna, sapevo perché la musica sui balli mi metteva voglia di girare le campagne come i cani. Quella finestra sulle colline oltre Canelli, di dove salivano i temporali e il sereno, e il mattino spuntava, era sempre il paese dove i treni fumavano, dove passava la strada per Genova. Sapevo che fra due anni avrei preso anch’io quel treno, come Nuto. Nelle feste cominciavo a far banda con quelli della mia leva – si beveva, si cantava, si parlava di noialtri.

Silvia adesso era di nuovo pazza. Ricomparvero alla Mora l’Arturo e il suo toscano, ma lei nemmeno li guardò. S’era messa con un ragioniere di Canelli che lavorava da Contratto e sembrava che dovessero sposarsi, sembrava d’accordo anche il sor Matteo – il ragioniere veniva alla Mora in bicicletta, era un biondino di San Marzano, portava sempre il torrone a Santina – ma una sera Silvia sparí. Rientrò soltanto il giorno dopo, con una bracciata di fiori. Era successo che a Canelli non c’era solo il ragioniere ma un bell’uomo che sapeva il francese e l’inglese e veniva da Milano, alto e grigio, un signore – si diceva che comprasse delle terre. Silvia s’incontrava con lui in una villa di conoscenti e ci facevano le merende. Quella volta ci fecero cena, e lei uscí l’indomani mattina. Il ragioniere lo seppe e voleva ammazzare qualcuno, ma quel Lugli andò a trovarlo, gli parlò come a un ragazzo e la cosa finí lí.

Quest’uomo che aveva forse cinquant’anni e dei figli grandi, io non lo vidi mai che da lontano, ma per Silvia fu peggio che Matteo di Crevalcuore. Sia Matteo che Arturo e tutti gli altri erano gente che capivo, giovanotti cresciuti là intorno, poco di buono magari, ma dei nostri, che bevevano, ridevano e parlavano come noi. Ma questo tale di Milano, questo Lugli, nessuno sapeva quel che facesse a Canelli. Dava dei pranzi alla Croce Bianca, era in buona col podestà e con la Casa del fascio, visitava gli stabilimenti. Doveva aver promesso a Silvia di portarla a Milano, chi sa dove, lontano dalla Mora e dai bricchi. Silvia aveva perso la testa, lo aspettava al caffè dello Sport, giravano sull’automobile del segretario per le ville, per i castelli, fino in Acqui. Credo che Lugli fosse per lei quello che lei e sua sorella sarebbero potute essere per me – quello che poi fu per me Genova o l’America. Ne sapevo già abbastanza a quei tempi per figurarmeli insieme e immaginare quel che si dicevano – come lui le parlava di Milano, dei teatri, di ricconi e di corse, e come lei stava a sentire con gli occhi pronti, arditi, fingendo di conoscere tutto. Questo Lugli era sempre vestito come il modello di un sarto, portava una pipetta in bocca, aveva i denti e un anello d’oro. Una volta Silvia disse a Irene – e l’Emilia sentí – ch’era stato in Inghilterra e doveva tornarci.

Ma venne il giorno che il sor Matteo piantò una sfuriata alla moglie e alle figlie. Gridò che era stufo di musi lunghi e di ore piccole, stufo dei mosconi là intorno, di non sapere mai la sera a chi dir grazie la mattina, d’incontrare dei conoscenti che gli tiravano satire. Diede la colpa alla matrigna, ai fannulloni, alla razza puttana delle donne. Disse che almeno la sua Santa la voleva allevare lui, che si sposassero pure se qualcuno le prendeva ma che gli uscissero dai piedi, tornassero in Alba. Pover uomo, era vecchio e non sapeva piú dominarsi, né comandare. Se n’era accorto anche Lanzone, sulle rese dei conti. Ce n’eravamo accorti tutti. La conclusione della sfuriata fu che Irene andò a letto con gli occhi rossi e la signora Elvira abbracciò Santina dicendole di non ascoltare parole simili. Silvia alzò le spalle e stette via tutta la notte e il giorno dopo.

Poi anche la storia di Lugli finí. Si seppe ch’era scappato lasciando dei grossi debiti. Ma Silvia stavolta si rivoltò come un gatto. Andò a Canelli alla Casa del fascio; andò dal segretario, andò nelle ville dove avevano goduto e dormito, e tanto fece che riuscí a sapere che doveva essere a Genova. Allora prese il treno per Genova, portandosi dietro l’oro e quei pochi soldi che trovò.

Un mese dopo andò a prenderla a Genova il sor Matteo, dopo che la questura gli ebbe risposto dov’era, poiché Silvia era maggiorenne e spedirla loro a casa non potevano. Faceva la fame sulle panchine di Brignole. Non aveva trovato Lugli, non aveva trovato nessuno, e voleva buttarsi sotto il treno. Il sor Matteo la calmò, le disse ch’era stata una malattia, una disgrazia, come il tifo di sua sorella, e che tutti l’aspettavamo alla Mora. Tornarono, ma stavolta Silvia era incinta davvero.

 

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