Cesare Pavese – La Luna e i falò (Parte 6)

 

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XXI.

 

Qualche anno dopo, a Genova dov’ero soldato, avevo trovato una ragazza che somigliava a Silvia, bruna come lei, piú grassottella e furba, con gli anni che Irene e Silvia avevano quand’ero entrato alla Mora. Io facevo l’attendente del mio colonnello che aveva una villetta sul mare e mi aveva messo a tenergli il giardino. Pulivo il giardino, accendevo le stufe, scaldavo l’acqua del bagno, giravo in cucina. Teresa era la cameriera e mi canzonava per le parole che dicevo. Proprio per questo avevo fatto l’attendente, per non avere sempre intorno i sergenti che mi pigliassero in giro quando parlavo. Io la guardavo dritto in faccia – ho sempre fatto cosí – non rispondevo e la guardavo. Ma stavo attento a quel che diceva la gente, parlavo poco e tutti i giorni imparavo qualcosa.

Teresa rideva e mi chiedeva se non avevo una ragazza che mi lavasse le camicie. — Non a Genova, — dissi.

Allora voleva sapere se quando andavo in licenza al paese mi portavo il fagotto.

— Io non ci torno al paese, – dissi. – Voglio stare qui a Genova.

— E la ragazza?

— Che cosa importa, – dissi, – ce ne sono anche a Genova.

Lei rideva e voleva sapere chi, per esempio. Allora ridevo io e le dicevo «non si sa».

Quando divenne la mia ragazza e di notte salivo a trovarla nella sua cuccia e facevamo l’amore, lei mi chiedeva sempre che cosa volevo fare a Genova senza un mestiere, e perché non volevo tornare a casa. Lo diceva metà per ridere e metà sul serio. «Perché qui ci sei tu», potevo dirle, ma era inutile, stavamo già abbracciati nel letto. Oppure dirle che anche Genova non era abbastanza, che a Genova c’era stato anche Nuto, ci venivano tutti – di Genova ero già stufo, volevo andare piú lontano – ma, se le avessi detto questo, lei si sarebbe arrabbiata, mi avrebbe prese le mani e cominciato a maledire, ch’ero anch’io come gli altri. «Eppure gli altri», le avevo spiegato, «si fermano a Genova volentieri, ci vengono apposta. Io un mestiere ce l’ho, ma a Genova nessuno lo vuole. Bisogna che vada in un posto che il mio mestiere mi renda. Ma che sia lontano, che nessuno del mio paese ci sia mai stato».

Teresa sapeva ch’ero figlio bastardo e mi chiedeva sempre perché non facevo ricerche, se non ero curioso di conoscere almeno mia madre. — Magari, – lei mi diceva, – è il tuo sangue ch’è cosí. Sei figlio di zingari, hai i peli ricci...

(L’Emilia, che mi aveva messo il nome di Anguilla, diceva sempre che dovevo esser figlio di un saltimbanco e di una capra dell’alta Langa. Io dicevo ridendo ch’ero figlio di un prete. E Nuto, già allora, mi aveva chiesto: — Perché dici questo? — Perché è un pelandrone, — aveva detto l’Emilia. Allora Nuto si era messo a gridare che nessuno nasce pelandrone né cattivo né delinquente; la gente nasce tutta uguale, e sono solamente gli altri che trattandoti male ti guastano il sangue. — Prendi Ganola, – io ribattevo, – è un insensato, nato allocco. — Insensato non vuol dire cattivo, – diceva Nuto, – sono gli ignoranti che gridandogli dietro lo fanno arrabbiare).

Io a queste cose ci pensavo soltanto quando avevo in braccio una donna. Qualche anno dopo – stavo già in America – mi accorsi che per me quella gente era tutta bastarda. A Fresno dove vivevo, portai a letto molte donne, con una fui quasi sposato, e mai che capissi dove avessero padre e madre e la loro terra. Vivevano sole, chi nelle fabbriche delle conserve, chi in un ufficio – Rosanne era una maestra ch’era venuta da chi sa dove, da uno stato del grano, con una lettera per un giornale del cinema, e non volle mai raccontarmi che vita avesse fatto sulla costa. Diceva soltanto ch’era stata dura – a hell of a time. Glien’era rimasta una voce un po’ rauca, di testa. È vero che c’erano famiglie su famiglie, e specie sulla collina, nelle case nuove, davanti alle tenute e alle fabbriche della frutta, le sere d’estate si sentiva baccano e odor di vigna e di fichi nell’aria, e bande di ragazzi e di bambine correvano nelle viuzze e sotto i viali, ma quella gente erano armeni, messicani, italiani, sembravano sempre arrivati allora, lavoravano la terra allo stesso modo che in città gli spazzini puliscono i marciapiedi, e dormivano, si divertivano in città. Di dove uno venisse, chi fosse suo padre o suo nonno, non succedeva mai di chiederlo a nessuno. E di ragazze di campagna non ce n’erano. Anche quelle dell’alta valle non sapevano mica cos’era una capra, una riva. Correvano in macchina, in bicicletta, in treno, a lavorare come quelle degli uffici. Facevano tutto a squadre, in città, anche i carri allegorici della festa dell’uva.

Nei mesi che Rosanne fu la mia ragazza, capii ch’era proprio bastarda, che le gambe che stendeva sul letto erano tutta la sua forza, che poteva avere i suoi vecchi nello stato del grano o chi sa dove, ma per lei una cosa sola contava – decidermi a tornare con lei sulla costa e aprire un locale italiano con le pergole d’uva – a fancy place, you know – e lí cogliere l’occasione che qualcuno la vedesse e le facesse una foto, da stampare poi su un giornale a colori – only gimme a break, baby. Era pronta a farsi fotografare anche nuda, anche con le gambe larghe sulla scala dei pompieri, pur di farsi conoscere. Come si fosse messa in mente ch’io potevo servirle non so; quando le chiedevo perché veniva a letto con me, rideva e diceva che dopotutto ero un uomo (Put it the other way round, you come with me because I’m a girl). E non era una stupida, sapeva quel che voleva – solamente voleva delle cose impossibili. Non toccava una goccia di liquore (your looks, you know, are your only free advertising agent) e fu lei che, quando abolirono la legge, mi consigliò di fabbricare il prohibition-time gin, il liquore del tempo clandestino, per chi ci avesse ancora gusto – e furono molti.

Era bionda, alta, stava sempre a lisciarsi le rughe e piegarsi i capelli. Chi non l’avesse conosciuta avrebbe detto, vedendola uscire con quel passo dal cancello della scuola, ch’era una brava studentessa. Che cosa insegnasse non so; i suoi ragazzi la salutavano gettando in aria il berretto e fischiando. I primi tempi, parlandole, io nascondevo le mani e coprivo la voce. Mi chiese subito perché non mi facevo americano. Perché non lo sono, brontolai — because I’m a wop — e lei rideva e mi disse ch’erano i dollari e il cervello che facevano l’americano. Which of them do you lack? qual è dei due che ti manca?

Ho pensato sovente che razza di figli sarebbero potuti uscire da noi due – da quei suoi fianchi lisci e duri, da quel ventre biondo nutrito di latte e di sugo d’arancia, e da me, dal mio sangue spesso. Venivamo tutti e due da chi sa dove, e l’unico modo per sapere chi fossimo, che cosa avessimo veramente nel sangue, era questo. Sarebbe bella, pensavo, se mio figlio somigliasse a mio padre, a mio nonno, e cosí mi vedessi davanti finalmente chi sono. Rosanne me l’avrebbe anche fatto un figlio – se accettavo di andare sulla costa. Ma io mi tenni, non volli – con quella mamma e con me sarebbe stato un altro bastardo – un ragazzotto americano. Già allora sapevo che sarei ritornato.

Rosanne, fin che l’ebbi con me, non concluse niente. Certe domeniche della bella stagione andavamo alla costa in automobile e prendevamo il bagno; lei passeggiava sulla spiaggia con dei sandali e delle sciarpe a colori, sorbiva la bibita in calzoncini nelle piscine, si distendeva sullo sdraio come se fosse nel mio letto. Io ridevo, non so bene di chi. Eppure mi piaceva quella donna, mi piaceva come il sapore dell’aria certe mattine, come toccare la frutta fresca sui banchi degli italiani nelle strade.

Poi una sera mi disse che tornava dai suoi. Restai lí perché mai l’avrei creduta capace di tanto. Stavo per chiederle quanto sarebbe stata via, ma lei guardandosi le ginocchia – era seduta accanto a me nella macchina – mi disse che non dovevo dir niente, ch’era tutto deciso, che andava per sempre dai suoi. Le chiesi quando partiva. — Anche domani. Any time.

Riportandola alla pensione le dissi che potevamo aggiustarla, sposarci. Mi lasciò parlare con un mezzo sorriso, guardandosi le ginocchia, corrugando la fronte.

— Ci ho pensato, – disse, con quella voce rauca. – Non serve. Ho perduto. I’ve lost my battle.

Invece non andò a casa, tornò ancora alla costa. Ma non uscí mai sui giornali a colori. Mi scrisse mesi dopo una cartolina da Santa Monica chiedendomi dei soldi. Glieli mandai e non mi rispose. Non ne seppi piú niente.

 

* * *

 

XXII.

 

Di donne ne ho conosciute andando per il mondo, di bionde e di brune – le ho cercate, ci ho speso dietro molti soldi; adesso che non sono piú giovane mi cercano loro, ma non importa – e ho capito che le figlie del sor Matteo non erano poi le piú belle – forse Santina, ma non l’ho veduta grande – avevano la bellezza della dalia, della rosa di spagna, di quei fiori che crescono nei giardini sotto le piante da frutta. Ho anche capito che non erano in gamba, che col loro pianoforte, coi romanzi, col tè, coi parasoli, non sapevano farsi una vita, esser vere signore, dominare un uomo e una casa. Ci sono molte contadine in questa valle che sanno meglio dominarsi, e comandare. Irene e Silvia non erano piú contadine, e non ancora vere signore. Ci stavan male, poverette – ci sono morte.

Io capii questa loro debolezza già al tempo di una delle prime vendemmie – me ne accorsi, via, anche se non capivo ancor bene. Per tutta l’estate, dal cortile e dai beni era bastato levar gli occhi e vedere il terrazzo, la vetrata, i coppi, per ricordarsi che le padrone eran loro, loro e la matrigna e la piccola, e che perfino il sor Matteo non poteva entrare nella stanza senza pulirsi i piedi sul tappeto. Poi capitava di sentirle chiamarsi lassú, capitava di attaccare il cavallo per loro, di vederle uscire sulla porta a vetri e andarsene a spasso col parasole, cosí ben vestite che l’Emilia non poteva neanche criticarle. Certe mattine una di loro scendeva in cortile, passava in mezzo alle zappe, alle carrette, alle bestie, e veniva in giardino a tagliare le rose. E qualche volta anche loro uscivano nei beni, sui sentieri, in scarpette, parlavano con la Serafina, col massaro, avevano paura dei manzi, portavano un bel cestino e raccoglievano l’uva luglienga. Una sera, dopo che avevamo ammucchiato i covoni del grano – la sera di S. Giovanni, c’erano i falò dappertutto – eran venute anche loro a prendere il fresco, a sentir cantare le ragazze. E poi tra noi, nella cucina, in mezzo ai filari, ne avevo sentite dir tante su di loro, che suonavano il piano, che leggevano i libri, che ricamavano i cuscini, che in chiesa avevano la placca sul banco. Ebbene, in quella vendemmia, nei giorni che noialtri preparavamo cavagni e bigonce e pulivamo la cantina e anche il sor Matteo girava le vigne, in quei giorni si sentí dall’Emilia che tutta la casa era in rivoluzione, che Silvia sbatteva le porte e Irene si sedeva a tavola con gli occhi rossi e non mangiava. Io non capivo che cosa potessero avere che non fosse la vendemmia e l’allegria del raccolto – e pensare che tutto si faceva per loro, per riempire le cantine e le tasche del sor Matteo ch’era roba loro. L’Emilia ce lo disse una sera, seduti sul trave. La questione del Nido.

Era successo che la vecchia – la contessa di Genova – tornata da quindici giorni al Nido con nuore e nipoti dai bagni di mare, aveva fatto degli inviti a Canelli e alla Stazione per una festa sotto i platani – e della Mora, di loro due, della signora Elvira, si era dimenticata. Dimenticata o che l’avesse fatto apposta? Le tre donne non lasciavano piú pace al sor Matteo. L’Emilia diceva che in quella casa la meno incagnita era adesso Santina. — Non ho mica ammazzato nessuno, – diceva l’Emilia. – Una risponde, l’altra salta, l’altra sbatte le porte. Se gli prude, si grattino.

Poi venne vendemmia e non ci pensai piú. Ma bastò quel fatto per aprirmi gli occhi. Anche Irene e Silvia erano gente come noi che maltrattata diventava cattiva, s’offendevano e ci soffrivano, desideravano delle cose che non avevano. Non tutti i signori valevano allo stesso modo, c’era qualcuno piú importante, piú ricco, che nemmeno invitava le mie padrone. E allora cominciai a chiedermi che cosa dovevano essere le stanze e il giardino del Nido, di quell’antica palazzina, perché Irene e Silvia morissero d’andarci e non potessero. Si sapeva soltanto quel che dicevano Tommasino e certi servitori, perché tutto quel fianco della collina era cintato e una riva lo separava dalle nostre vigne, dove nemmeno i cacciatori potevano entrare – c’era il cartello. E alzando la testa dallo stradone sotto il Nido, si vedeva tutto un fitto di canne bizzarre che si chiamavano bambú. Tommasino diceva ch’era un parco, che intorno alla casa c’era tanta ghiaietta, piú minuta e bianca di quella che il cantoniere buttava a primavera sullo stradone. Poi i beni del Nido andavano su per la collina dietro, vigne e grano, grano e vigne, e cascine, boschetti di noci, di ciliegi e di mandorli, che arrivavano a Sant’Antonino e oltre, e di là si scendeva a Canelli, dove c’erano i vivai coi sostegni di cemento e le bordure di fiori.

Dei fiori del Nido ne avevo visti l’anno prima, quando Irene e la signora Elvira c’erano andate insieme e tornate con dei mazzi ch’erano piú belli dei vetri della chiesa e dei paramenti del prete. L’anno prima capitava d’incontrare la carrozza della vecchia sulla strada di Canelli; Nuto l’aveva vista e diceva che il Moretto servitore che la guidava sembrava un carabiniere, col cappello lucido e la cravatta bianca. Da noi questa carrozza non s’era mai fermata, solo una volta era passata per andare alla Stazione. Anche la messa la vecchia se la sentiva a Canelli. E i nostri vecchi dicevano che tanto tempo fa, quando la vecchia non c’era ancora, i signori del Nido non andavano nemmeno a sentir messa, ce l’avevano in casa, tenevano un prete che la diceva tutti i giorni in una stanza. Ma questo era ai tempi che la vecchia era ancora una ragazza da niente e faceva l’amore a Genova col figlio del Conte. Poi era diventata lei la padrona di tutto, era morto il figlio del Conte, era morto un bell’ufficiale che la vecchia s’era sposato in Francia, erano morti i loro figli chi sa dove, e adesso la vecchia, coi capelli bianchi e un parasole giallo, andava a Canelli in carrozza e dava da mangiare e da dormire ai nipoti. Ma ai tempi del figlio del Conte e dell’ufficiale francese, di notte il Nido era sempre acceso, sempre in festa, e la vecchia che allora era ancor giovane come una rosa dava dei pranzi, dei balli, invitava la gente da Nizza e da Alessandria. Venivano belle donne, ufficiali, deputati, tutti in carrozza a tiro da due, coi domestici, e giocavano a carte, prendevano il gelato, facevano nozze.

Irene e Silvia sapevano queste cose, e per loro essere ben trattate dalla vecchia, ricevute, festeggiate, era come per me dare un’occhiata dal terrazzo nella stanza del pianoforte, saperle a tavola sopra noialtri, veder l’Emilia fargli i versi con la forchetta e col cucchiaio. Soltanto, essendo tra donne, ci soffrivano. E poi loro, tutto il giorno ciondolavano sul terrazzo o in giardino – non avevano un lavoro, una vera fatica che le occupasse – nemmeno dietro alla Santina ci stavano volentieri. Si capisce che la voglia di andarsene dalla Mora, di entrare in quel parco sotto i platani, di trovarsi con le nuore e i nipoti della contessa, le faceva addirittura ammattire. Era come per me vedere i falò sulla collina di Cassinasco o sentir fischiare il treno di notte.

 

* * *

 

XXIII.

 

Poi veniva la stagione che in mezzo alle albere di Belbo e sui pianori dei bricchi rintronavano fucilate già di buon’ora e Cirino cominciava a dire che aveva visto la lepre scappare in un solco. Sono i giorni piú belli dell’anno. Vendemmiare, sfogliare, torchiare non sono neanche lavori; caldo non fa piú, freddo non ancora; c’è qualche nuvola chiara, si mangia il coniglio con la polenta e si va per funghi.

Noialtri andavamo per funghi là intorno; Irene e Silvia combinarono con le loro amiche di Canelli e i giovanotti di andarci in biroccino fino a Agliano. Partirono una mattina che sui prati c’era ancora la nebbia; gli attaccai io il cavallo, dovevano trovarsi con gli altri sulla piazza di Canelli. Prese la frusta il figlio del medico della Stazione, quello che al tirasegno faceva sempre centro e giocava alle carte dalla sera al mattino. Quel giorno venne un grosso temporale, lampi e fulmini come d’agosto. Cirino e la Serafina dicevano ch’era meglio la grandine adesso sui funghi e su chi li cercava che non sul raccolto quindici giorni prima. Non smise di piovere a diluvio neanche nella notte. Il sor Matteo venne a svegliarci con la lanterna e il mantello sulla faccia, ci disse di stare attenti se sentivamo il biroccio arrivare, non era tranquillo. Le finestre di sopra erano accese; l’Emilia corse su e giú a fare il caffè; la piccola strillava perché non l’avevano portata a funghi anche lei.

Il biroccio tornò l’indomani col figlio del medico che menava la frusta e gridando «Viva l’acqua d’Agliano» saltò a terra senza toccare il predellino. Poi aiutò le due ragazze a scendere; stavano infreddolite con un fazzoletto in testa e il cestino vuoto sulle ginocchia. Andarono sopra e sentii che parlavano e si scaldavano e ridevano.

Da quella volta della gita a Agliano, il figlio del medico passava sovente nella strada sotto il terrazzo, e salutava le ragazze e si parlavano cosí. Poi i pomeriggi d’inverno lo fecero entrare e lui, che girava con degli stivali da cacciatore, si batteva il bastoncino sullo stivale, si guardava intorno, strappava un fiore o un rametto nel giardino – meglio, una foglia rossa di vite vergine – e saliva svelto la scala dietro i vetri. Di sopra era acceso un bel fuoco nel caminetto, e si sentiva suonare il piano, ridere, fino a sera. Qualche volta quell’Arturo si fermava a pranzo. L’Emilia diceva che gli davano il tè coi biscotti, glielo dava sempre Silvia, ma lui il filo lo faceva a Irene. Irene, cosí bionda e buona, si metteva a suonare il piano per non parlargli, Silvia stava a pancia molle sul sofà, e dicevano le loro sciocchezze. Poi s’apriva la porta, la signora Elvira cacciava dentro la piccola Santina di corsa, e Arturo si alzava in piedi, salutava seccato, la signora diceva: — Abbiamo ancora una signorina gelosa, che vuol essere presentata —. Poi arrivava il sor Matteo che ce l’aveva su con lui, ma la signora Elvira invece gliele faceva buone e trovava che per Irene andava benissimo anche Arturo. Chi non lo voleva era Irene, perché diceva ch’era un uomo falso – che la musica non l’ascoltava neanche, che a tavola non sapeva stare, e faceva giocare Santina soltanto per ingraziarsi la madre. Silvia invece lo difendeva, diventava rossa, e alzavano la voce; un bel momento Irene, fredda, si dominava e diceva: — Io te lo lascio. Perché non lo prendi tu?

— Buttatelo fuori di casa, – diceva il sor Matteo, – un uomo che gioca e che non ha un pezzo di terra non è un uomo.

Verso la fine dell’inverno quest’Arturo cominciò a portarsi dietro un impiegato della stazione, un suo amico lungo lungo che si attaccò a Irene anche lui, e che parlava soltanto in italiano, ma s’intendeva di musica. Questo spilungone si mise a suonare a quattro mani con Irene e, visto che loro facevano coppia cosí, Arturo e Silvia s’abbracciavano per ballare e ridevano insieme e adesso, quando Santina arrivava, toccava all’amico farla saltare e riacchiapparla al volo.

— Se non fosse che è toscano, – diceva il sor Matteo, – direi ch’è un ignorante. L’aria ce l’ha... C’era un toscano con noi a Tripoli...

Io sapevo com’era la stanza, i due mazzi di fiori e di foglie rosse sul piano, le tendine ricamate da Irene, e la lampada di marmo trasparente appesa alle catenelle, che faceva una luce come la luna riflessa nell’acqua. Certe sere tutt’e quattro s’imbacuccavano e uscivano sul terrazzo nella neve. Qui i due uomini fumavano il sigaro e allora, stando sotto la vite vergine secca, si sentivano i discorsi.

Veniva anche Nuto, a ascoltare i discorsi. Il bello era sentire Arturo che faceva l’uomo in gamba e raccontava quanti ne aveva buttati giú dal treno a Costigliole l’altro giorno o quella volta in Acqui che s’era giocato l’ultimo soldo e se perdeva non tornava piú a casa e invece aveva vinto da pagare una cena. Il toscano diceva: — Ti ricordi che desti quel pugno... — Allora Arturo raccontava quel pugno.

Le ragazze sospiravano appoggiate alla ringhiera. Il toscano si metteva accanto a Irene e raccontava di casa sua, di quando andava a suonar l’organo in chiesa. A un certo punto i due sigari ci cadevano ai piedi, nella neve, e allora là sopra si sentiva susurrare, agitarsi, qualche sospiro piú forte. Alzando gli occhi non si vedeva che la vite secca e tante stelline fredde in cielo. Nuto diceva: — Vagabondi —, con la voce tra i denti. Sempre ci pensavo, e chiedevo anche all’Emilia, ma non si poteva capire come fossero accoppiati. Il sor Matteo brontolava soltanto su Irene e il figlio del medico, e diceva che un giorno o l’altro voleva dirgliene quattro. La signora faceva l’offesa. Irene alzava le spalle e rispondeva che lei quel villano d’Arturo non l’avrebbe nemmeno voluto per servitore ma non poteva farci niente se veniva a trovarle. Silvia diceva allora che lo scemo era il toscano. La signora Elvira si offendeva un’altra volta.

Che Irene parlasse al toscano non era possibile, perché Arturo ci stava attento e comandava lui l’amico. Restava dunque che Arturo faceva il filo a tutt’e due, e sperando di prendersi Irene, si divertiva anche con l’altra. Bastava aspettare la bella stagione e andargli dietro per i prati. Si sarebbe visto subito.

Ma intanto andò che il sor Matteo prese di petto quell’Arturo – la storia si seppe da Lanzone che passava per caso sotto il portico – e gli disse che le donne sono donne e gli uomini uomini. No? Arturo, che aveva giusto staccato allora un mazzetto, si batté col frustino sullo stivale e, annusando i fiori, guardò storto il padrone. — Ciò nulla di meno, – continuò il sor Matteo, – quando siano ben allevate, le donne conoscono chi fa per loro. E tu, – gli disse, – non ti vogliono. Capito?

Arturo allora aveva borbottato questo e quello, che diamine, era stato gentilmente invitato a passare di lí, si capisce che un uomo...

— Non sei un uomo, – aveva detto il sor Matteo, – sei uno sporcaccione.

Cosí sembrò finita la storia di Arturo, e con Arturo anche del toscano. Ma la matrigna non ebbe il tempo di starsene offesa perché ne vennero degli altri, tanti altri piú pericolosi. I due ufficiali, per esempio, quelli del giorno ch’ero rimasto io solo alla Mora. Ci fu un mese – c’eran le lucciole, era giugno – che tutte le sere si vedevano spuntare da Canelli. Dovevano averci qualche altra donna che stava sullo stradone, perché mai che arrivassero di là – loro tagliavano da Belbo, sulla pontina, e traversavano i beni, le melighe, i prati. Io avevo allora sedici anni, e questo cose cominciavo a capirle. Con loro Cirino l’aveva su perché gli pestavano la medica e perché si ricordava che carogne erano stati in guerra gli ufficiali come quelli. Di Nuto non si parla nemmeno. Una sera gliela fecero brutta. Appostarono il passaggio nell’erba e gli tesero un fildiferro nascosto. Quelli arrivarono saltando un fosso, godendosi già le signorine, e andarono giú a rompicollo a spaccarsi la faccia. Il bello sarebbe stato farli cascare nel letame, ma da quella sera non passarono piú nei prati.

Con la buona stagione, specialmente Silvia piú nessuno la teneva. Adesso s’erano messe, nelle sere d’estate, a uscire dal cancello e accompagnare i loro giovanotti su e giú per lo stradone, e quando ripassavano sotto i tigli noi si tendeva l’orecchio per sentire qualche parola. Partivano a quattro, ritornavano a coppie. Silvia s’incamminava tenendo a braccetto Irene e rideva, scherzava, ribatteva coi due. Quando ripassavano, nell’odore dei tigli, Silvia e il suo uomo se ne stavano insieme, camminavano bisbigliando e ridendo; l’altra coppia veniva piú adagio, staccata, e a volte chiamavano, parlavano forte coi primi. Ricordo bene quelle sere, e noialtri seduti sul trave, nell’odore fortissimo dei tigli.

 

* * *

 

XXIV.

 

La piccola Santa, che aveva allora tre o quattro anni, era una cosa da vedere. Veniva su bionda come Irene, con gli occhi neri di Silvia, ma quando si mordeva le dita insieme con la mela e per dispetto strappava i fiori, o voleva a tutti i costi che la mettessimo sul cavallo e ci dava calci, noi dicevamo ch’era il sangue di sua madre. Il sor Matteo e le altre due facevano le cose piú con calma e non erano cosí prepotenti. Irene soprattutto era calma, cosí alta, vestita di bianco, e con nessuno s’irritava mai. Non ne aveva bisogno, perché perfino all’Emilia chiedeva sempre le cose per favore, e a noialtri, poi, guardandoci mentre ci parlava, guardandoci negli occhi. Anche Silvia dava di queste occhiate, ma erano già piú calde, maliziose. L’ultimo anno che stetti alla Mora io prendevo cinquanta lire e alla festa mi mettevo la cravatta, ma capivo ch’ero arrivato troppo tardi, e non potevo piú far niente.

Ma neanche in quegli ultimi anni avrei osato di pensare a Irene. E Nuto non ci pensava perché ormai suonava il clarino dappertutto e aveva la ragazza a Canelli. Di Irene si diceva che parlasse con uno di Canelli, andavano sempre a Canelli, comperavano roba nei negozi, regalavano all’Emilia i vestiti smessi. Ma anche il Nido s’era riaperto, ci fu una cena a cui la signora e le figlie andarono, e quel giorno venne la sarta da Canelli per vestirle. Io le condussi in biroccio fino alla svolta della salita e sentii che parlavano dei palazzi di Genova. Mi dissero di tornare a riprenderle a mezzanotte, di entrare nel cortile del Nido – col buio gli invitati non avrebbero visto che i cuscini del biroccio erano scrostati. Mi dissero anche di drizzarmi la cravatta per non sfigurare.

Ma quando a mezzanotte entrai fra le altre carrozze in quel cortile – vista da sotto la palazzina era enorme e sulle finestre spalancate passavano ombre d’invitati – nessuno si fece vivo e mi lasciarono in mezzo ai platani un pezzo. Quando fui stufo di ascoltare i grilli – anche lassú c’erano i grilli – scesi dal biroccio e mi feci alla porta. Nella prima sala trovai una ragazza col grembialino bianco, che mi guardò e tirò via. Poi ripassò, le dissi ch’ero arrivato. Lei mi chiese che cosa volevo. Allora dissi che il biroccio della Mora era pronto.

S’aprí una porta e sentii ridere molti. Su tutte le porte, in quella sala, c’erano delle pitture di fiori e per terra dei disegni di pietra, lucidi. La ragazza tornò e mi disse che potevo andar via, perché le signore sarebbero state accompagnate da qualcuno.

Quando fui fuori rimpiangevo di non aver guardato meglio quella sala ch’era piú bella di una chiesa. Portai a mano il cavallo sulla ghiaietta che scricchiolava, sotto i platani, e li guardavo contro il cielo – visti da sotto non erano piú un boschetto ma ognuno faceva lea da solo – e sul cancello accesi una sigaretta e venni giú per quella strada adagio, in mezzo ai bambú misti a gaggie e tronchi strambi, pensando com’è la terra, che porta qualunque pianta.

Irene doveva proprio averci un uomo nella palazzina, perché a volte sentivo Silvia che la canzonava e la chiamava «madama contessa», e presto l’Emilia seppe anche che quell’uomo era un morto in piedi, un nipote dei tanti che la vecchia teneva apposta spiantati perché non le mangiassero la casa sulla testa. Questo nipote, questo spiantato, questo contino, non si degnò mai di venire alla Mora, mandava a volte un ragazzetto scalzo, quello del Berta, a portare dei biglietti a Irene, diceva che l’aspettava al paracarro per fare una passeggiata. Irene ci andava.

Io dai fagioli dell’orto dove bagnavo o legavo i sostegni, sentivo Irene e Silvia sedute sotto la magnolia parlarne.

Irene diceva: — Cosa vuoi? la contessa ci tiene molto... Non può mica un ragazzo come lui andare in festa alla Stazione... Ci troverebbe i suoi servitori sullo stesso palchetto...

— Che male c’è? li incontra in casa tutti i giorni...

— Non vuole nemmeno che vada a caccia. Già suo padre è morto in quel modo tragico...

— Però a trovarti potrebbe venire. Perché non viene? — disse Silvia d’improvviso.

— Nemmeno lui viene a trovarti qui. Perché non viene?... Sta’ attenta, Silvia. Sei sicura che ti dica la verità?

— Nessuno la dice, la verità. Se ci pensi alla verità, vieni matta. Guai a te se gliene parli...

— Sei tu che lo vedi, – diceva Irene, – sei tu che ti fidi... Vorrei soltanto che non fosse grossolano come l’altro...

Silvia rideva, a bassa voce. Io non potevo star sempre fermo dietro i fagioli, se ne sarebbero accorte. Davo un colpo di zappa e tendevo l’orecchio.

Una volta Irene disse: — Avrà sentito, non credi?

— Va’ là, è il garzone, — diceva Silvia.

Ma ci fu la volta che Silvia piangeva, si torceva sullo sdraio e piangeva. Cirino dal portico batteva un ferro e non mi lasciava sentire. Irene le stava intorno, le toccava i capelli, dove Silvia s’era piantate le unghie. — No, no, – piangeva Silvia, – voglio andarmene, scappare... Non ci credo, non ci credo, non ci credo...

Quel maledetto ferro di Cirino non mi lasciava sentire.

— Vieni su, – diceva Irene toccandola, – vieni su sul terrazzo, sta’ zitta...

— Non me ne importa, – gridava Silvia, – non me ne importa di niente...

Silvia si era messa con uno di Crevalcuore, che avevano delle terre a Calosso, un padrone di segheria che girava in motocicletta, si faceva salir dietro Silvia e partivano per quegli stradoni. La sera sentivamo il fracasso della moto, si fermava, ripartiva, e dopo un poco compariva Silvia coi capelli neri negli occhi, al cancello. Il sor Matteo non sapeva niente.

L’Emilia diceva che quest’uomo non era il primo, che il figlio del medico l’aveva già presa, in casa sua nello studio del padre. Fu una cosa che non si seppe mai bene; se davvero quell’Arturo ci aveva fatto l’amore, perché avevano smesso proprio nell’estate quando diventava piú bello, e piú facile trovarsi? Invece era venuto il motociclista, e adesso tutti sapevano che Silvia era come matta, si faceva portare tra le canne e nelle rive, la gente li incontrava a Camo, a Santa Libera, nei boschi del Bravo. A volte andavano anche a Nizza all’albergo.

A vederla, era sempre la stessa – quegli occhi scuri, scottanti. Non so se sperasse di farsi sposare. Ma quel Matteo di Crevalcuore era un attaccabrighe, un boscaiolo che ne aveva già bruciati molti di letti, e nessuno l’aveva mai fermato. «Ecco, – pensavo, – se Silvia fa un figlio, sarà un bastardo come me. Io sono nato cosí».

Ci soffriva anche Irene. Lei doveva aver provato a aiutare Silvia e ne sapeva piú di noi. Irene era impossibile immaginarsela su quella motocicletta o in una riva tra le canne con qualcuno. Piuttosto Santina, quando sarebbe cresciuta, dicevano tutti che avrebbe fatto lo stesso. La matrigna non diceva niente, voleva soltanto che tutt’e due fossero a casa all’ora giusta.

 

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