Cesare Pavese – La Luna e i falò (Parte 5)

 

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XVII.

 

Nuto dice che si ricorda la prima volta che mi vide alla Mora – ammazzavano il maiale e le donne eran tutte scappate, tranne Santina che camminava appena allora e arrivò sul piú bello che il maiale buttava sangue. — Portate via quella bambina, — aveva gridato il massaro, e l’avevamo inseguita e acchiappata io e Nuto, pigliandoci non pochi calci. Ma se Santina camminava e correva, voleva dire ch’io ero già da piú di un anno alla Mora e c’eravamo visti prima. A me pare che la prima volta fosse quando non ci stavo ancora, l’autunno prima della grossa grandine, alla sfogliatura. Eravamo nel cortile al buio, una fila di gente, servitori, ragazzi, contadini di là intorno, donne – e chi cantava, chi rideva, seduti sul lungo mucchio della meliga, e sfogliavamo, in quell’odore secco e polveroso dei cartocci, e tiravamo le pannocchie gialle contro il muro del portico. E quella notte c’era Nuto, e quando Cirino e la Serafina giravano coi bicchieri lui beveva come un uomo. Doveva avere quindici anni, per me era già un uomo. Tutti parlavano e raccontavano storie, i giovanotti facevano ridere le ragazze. Nuto s’era portata la chitarra e invece di sfogliare suonava. Suonava bene già allora. Alla fine tutti avevano ballato e dicevano «Bravo Nuto».

Ma questa notte veniva tutti gli anni, e forse ha ragione Nuto che c’eravamo veduti in un’altra occasione. Nella casa del Salto lui lavorava già con suo padre; lo vedevo al banco ma senza grembiale. Stava poco a quel banco. Era sempre disposto a tagliar la corda, e si sapeva che andando con lui non si facevano soltanto giochi da ragazzi, non si perdeva l’occasione – capitava qualcosa ogni volta, si parlava, s’incontrava qualcuno, si trovava un nido speciale, una bestia mai vista, s’arrivava in un posto nuovo – insomma era sempre un guadagno, un fatto da raccontare. E poi, a me Nuto piaceva perché andavamo d’accordo e mi trattava come un amico. Aveva già allora quegli occhi forati, da gatto, e quando aveva detto una cosa finiva: «Se sbaglio, correggimi». Fu cosí che cominciai a capire che non si parla solamente per parlare, per dire «ho fatto questo» «ho fatto quello» «ho mangiato e bevuto», ma si parla per farsi un’idea, per capire come va questo mondo. Non ci avevo mai pensato prima. E Nuto la sapeva lunga, era come uno grande; certe sere d’estate veniva a vegliare sotto il pino – sul terrazzo c’erano Irene e Silvia, c’era la madre – e lui scherzava con tutti, faceva il verso ai piú ridicoli, raccontava delle storie di cascine, di furbi e di goffi, di suonatori e di contratti col prete, che sembrava suo padre. Il sor Matteo gli diceva: — Voglio vedere quando andrai soldato tu, che cosa combini. Al reggimento ti levano i grilli — e Nuto rispondeva: — È difficile levarceli tutti. Non sentite quanti ce n’è in queste vigne?

A me ascoltare quei discorsi, essere amico di Nuto, conoscerlo cosí, mi faceva l’effetto di bere del vino e sentir suonare la musica. Mi vergognavo di essere soltanto un ragazzo, un servitore, di non sapere chiacchierare come lui, e mi pareva che da solo non sarei mai riuscito a far niente. Ma lui mi dava confidenza, mi diceva che voleva insegnarmi a suonare il bombardino, portarmi in festa a Canelli, farmi sparare dieci colpi nel bersaglio. Mi diceva che l’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa ma da come lo fa, e che certe mattine svegliandosi aveva voglia anche lui di mettersi al banco e cominciare a fabbricare un bel tavolino. — Cos’hai paura, – mi diceva, – una cosa s’impara facendola. Basta averne voglia... Se sbaglio correggimi.

Gli anni che vennero, imparai molte altre cose da Nuto – o forse era soltanto che crescevo e cominciavo a capire da me. Ma fu lui che mi spiegò perché Nicoletto era cosí carogna. — È un ignorante, – mi disse, – crede perché sta in Alba e porta le scarpe tutti i giorni e nessuno lo fa lavorare, di valere di piú di un contadino come noi. E i suoi di casa lo mandano a scuola. Sei tu che lo mantieni lavorando le terre dei suoi. Lui neanche lo capisce —. Fu Nuto che mi disse che col treno si va dappertutto, e quando la ferrata finisce cominciano i porti, e i bastimenti vanno a orario, tutto il mondo è un intrico di strade e di porti, un orario di gente che viaggia, che fa e che disfa, e dappertutto c’è chi è capace e chi è tapino. Mi disse anche i nomi di tanti paesi e che bastava leggere il giornale per saperne di tutti i colori. Cosí, certi giorni ch’ero nei beni, nelle vigne sopra la strada zappando al sole, e sentivo tra i peschi arrivare il treno e riempire la vallata filando o venendo da Canelli, in quei momenti mi fermavo sulla zappa, guardavo il fumo, i vagoni, guardavo Gaminella, la palazzina del Nido, verso Canelli e Calamandrana, verso Calosso, e mi pareva di aver bevuto del vino, di essere un altro, di esser come Nuto, di arrivare a valere quanto lui, e che un bel giorno avrei preso anch’io quel treno per andare chi sa dove.

Anche a Canelli c’ero già andato diverse volte in bicicletta, e mi fermavo sul ponte di Belbo – ma la volta che ci trovai Nuto fu come se fosse la prima. Lui era venuto a cercare un ferro per suo padre e mi vide davanti alla censa che guardavo le cartoline. — Allora te le dan già queste sigarette? — mi disse sulla spalla, all’improvviso. Io che studiavo quante biglie colorate ci stanno in due soldi, mi vergognai, e da quel giorno lasciai perdere le biglie. Poi girammo insieme e guardammo la gente che entrava e usciva nel caffè. I caffè di Canelli non sono osterie, non si beve vino ma bibite. Ascoltavamo i giovanotti che parlavano dei fatti loro, e dicevano calmi calmi storie grosse come case. Nella vetrina c’era un manifesto stampato, con un bastimento e degli uccelli bianchi, e senza neanche chiedere a Nuto capii ch’era per quelli che volevano viaggiare, vedere il mondo. Poi ne parlammo e lui mi disse che uno di quei giovanotti – uno biondo, vestito con la cravatta e i calzoni stirati – era impiegato nella banca dove andavano a mettersi d’accordo quelli che volevano imbarcarsi. Un’altra cosa che sentii quel giorno fu che a Canelli c’era una carrozza che usciva ogni tanto con sopra tre donne, anche quattro, e queste donne facevano una passeggiata per le strade, andavano fino alla Stazione, a S. Anna, su e giú per lo stradone, e prendevano la bibita in diversi posti – tutto questo per farsi vedere, per attirare i clienti, era il loro padrone che l’aveva studiata, e poi chi aveva i soldi e l’età entrava in quella casa di Villanova e dormiva con una di loro.

— Tutte le donne di Canelli fanno questo? — dissi a Nuto, quando l’ebbi capita.

— Sarebbe meglio ma non è, – disse lui. – Non tutte girano in carrozza.

Con Nuto venne un momento, quando avevo già sedici diciassette anni e lui stava per andare soldato, che o lui o io arraffavamo una bottiglia in cantina, e poi ce la portavamo sul Salto, ci mettevamo tra le canne se era giorno, sulla proda della vigna se c’era la luna, e bevevamo alla bocca discorrendo di ragazze. La cosa che non mi capacitava a quei tempi, era che tutte le donne sono fatte in un modo, tutte cercano un uomo. È cosí che dev’essere, dicevo pensandoci; ma che tutte, anche le piú belle, anche le piú signore, gli piacesse una cosa simile mi stupiva. Allora ero già piú sveglio, ne avevo sentite tante, e sapevo, vedevo come anche Irene e Silvia correvano dietro a questo e a quello. Però mi stupiva. E Nuto a dirmi: — Cosa credi? la luna c’è per tutti, cosí le piogge, cosí le malattie. Hanno un bel vivere in un buco o in un palazzo, il sangue è rosso dappertutto.

— Ma allora cosa dice il parroco, che fa peccato?

— Fa peccato il venerdí, – diceva Nuto asciugandosi la bocca, – ma ci sono altri sei giorni.

 

* * *

 

XVIII.

 

Ma lavoravo la mia parte e adesso Cirino qualche volta stava a sentire quel che dicevo di un fondo e mi dava ragione. Fu lui che parlò al sor Matteo e gli disse che doveva aggiustarmi; se volevano tenermi sui beni che stessi dietro al raccolto e non scappassi per nidi coi ragazzi, bisognava mettermi a giornata. Adesso zappavo, davo lo zolfo, conoscevo le bestie, aravo. Ero capace di uno sforzo. Per mio conto avevo imparato a innestare, e l’albicocco che c’è ancora nel giardino l’ho inserito io sulle prugne. Il sor Matteo mi chiamò un giorno sul terrazzo, c’era anche Silvia e la signora, e mi chiese che fine aveva fatta il mio Padrino. Silvia stava seduta sullo sdraio e guardava la punta dei tigli; la signora faceva la maglia. Silvia era nera di capelli, vestita di rosso, meno alta d’Irene, ma tutt’e due figuravano piú della matrigna. Avevano almeno vent’anni. Quando passavano col parasole, io dalla vigna le guardavo come si guarda due pesche troppo alte sul ramo. Quando venivano a vendemmiare con noi, me ne scappavo nel filare dell’Emilia e di là fischiavo per mio conto.

Dissi che Padrino non l’avevo piú visto, e chiesi perché m’aveva chiamato. Mi seccava di avere i calzoni da verderame e anche gli spruzzi sulla faccia: non mi ero aspettato di trovarci le donne. A pensarci adesso, è chiaro che il sor Matteo l’ha fatto apposta, per confondermi, ma in quel momento per darmi coraggio pensai soltanto a una cosa che l’Emilia ci aveva detto di Silvia: «Per quella lí. Dorme senza la camicia».

— Lavori tanto, – mi disse quel giorno il sor Matteo, – e hai lasciato che il Padrino sprecasse la vigna. Non ce n’hai di puntiglio?

— Sono ancora ragazzi, – disse la signora, – e già chiedono la giornata.

Avrei voluto sprofondare. Dallo sdraio Silvia girò gli occhi e disse qualcosa a suo padre. Disse: — È andato qualcuno a pigliare quei semi a Canelli? Al Nido i garofani sono già fioriti.

Nessuno le disse «Vacci tu». Invece il sor Matteo mi guardò un momento e borbottò: — La vigna bianca è già finita?

— Finiamo stasera.

— Domani c’è da fare quel traino...

— Ha detto che ci pensa il massaro.

Il sor Matteo mi guardò di nuovo e mi disse che io ero a giornata con vitto e alloggio e doveva bastarmi.

— Il cavallo s’accontenta, – mi disse, – e lavora piú di te. S’accontentano anche i manzi. Elvira, ti ricordi quand’è venuto questo ragazzo che sembrava un passerotto? Adesso ingrassa, cresce come un frate. Se non stai attento, – mi disse, – a Natale ti ammazziamo insieme con quell’altro...

Silvia disse: — C’è nessuno che va a Canelli?

— Diglielo a lui, — disse la matrigna.

Sulla terrazza arrivarono Santina e l’Emilia. Santina aveva le scarpette rosse e i capelli sottili, quasi bianchi. Non voleva mangiare la pappa e l’Emilia cercava di prenderla e riportarla dentro.

— Santa Santina, – disse il sor Matteo alzandosi, – vieni qui che ti mangio.

Mentre facevano le feste alla bambina, io non sapevo se dovevo andarmene. La vetrata della sala luccicava, e guardando lontano oltre Belbo si vedeva Gaminella, i canneti, la riva di casa mia. Mi ricordai le cinque lire del municipio.

Allora dissi al sor Matteo, che faceva saltare la piccola: — Devo andare a Canelli domani?

— Chiedilo a lei.

Ma Silvia gridava dalla ringhiera che l’aspettassero. Irene in biroccio passava sotto il pino con un’altra ragazza, le conduceva un giovanotto della Stazione. — Mi portate a Canelli? — gridò Silvia.

Un momento dopo eran tutte via, la signora Elvira rientrata in casa con la piccola, le altre ridevano sulla strada. Dissi al sor Matteo: — Una volta l’ospedale pagava cinque lire per me. Da un pezzo non le ho piú viste e chi sa chi le prende. Ma io lavoro per piú di cinque lire... Devo comprarmi delle scarpe.

Quella sera fui felice e lo dissi a Cirino, a Nuto, all’Emilia, al cavallo: il sor Matteo mi aveva promesso cinquanta lire al mese, tutte per me. La Serafina mi chiese se volevo far banca da lei – a tenerle in tasca, le perdevo. Me lo chiese che c’era Nuto presente: Nuto si mise a fischiare e disse che è meglio quattro soldi in mano che un milione in banca. Poi l’Emilia cominciò a dire che voleva un regalo da me, e tutta la sera si parlò dei miei soldi.

Ma, come diceva Cirino, adesso che ero aggiustato mi toccava lavorare come un uomo. Io non ero cambiato per niente, stesse braccia, stessa schiena, mi dicevano sempre Anguilla, non capivo la differenza. Nuto mi consigliò di non prendermela; mi disse che probabilmente, se me ne davano cinquanta, lavoravo già per cento, e perché non mi compravo l’ocarina. — Non ci riesco a imparare a suonare, – gli dissi, – è inutile. Sono nato cosí. — Se è tanto facile, — lui disse. La mia idea era un’altra. Pensavo già che con quei soldi un bel giorno avrei potuto partire.

Invece i soldi dell’estate li sprecai tutti alla festa, al tirasegno, in sciocchezze. Fu allora che mi comprai un coltello col fermaglio, quello che mi serví a far paura ai ragazzi di Canelli la sera che mi aspettavano sulla strada di Sant’Antonino. Se uno girava un po’ sovente per le piazze guardandosi intorno, a quei tempi finiva che l’aspettavano col fazzoletto legato intorno al pugno. E una volta, dicevano i vecchi, era stato ancora peggio – una volta si ammazzavano, si davano coltellate – sulla strada di Camo c’era ancora la croce a uno strapiombo dove avevano fatto ribaltare un biroccino con due dentro. Ma adesso ci aveva pensato il governo con la politica a metterli tutti d’accordo: c’era stata l’epoca dei fascisti che picchiavano chi volevano, d’accordo coi carabinieri, e piú nessuno si muoveva. I vecchi dicevano che adesso era meglio.

Anche in questo, Nuto era piú in gamba di me. Lui già allora girava dappertutto e sapeva ragionare con tutti. Anche l’inverno che parlò con una ragazza di S. Anna e andava e veniva di notte, nessuno gli disse mai niente. Sarà che cominciava in quegli anni a suonare il clarino e che tutti conoscevano suo padre e che lui nelle gare del pallone non ci metteva mai becco, fatto sta che lo lasciavano girare e scherzare senza segnarselo. Lui a Canelli conosceva diversi, e già allora quando sentiva che volevano suonarle a qualcuno, gli dava degli ignoranti, degli scemi, gli diceva che lasciassero quel mestiere a chi era pagato per farlo. Li faceva vergognare. Gli diceva che sono soltanto i cani che abbaiano e saltano addosso ai cani forestieri e che il padrone aizza un cane per interesse, per restare padrone, ma se i cani non fossero bestie si metterebbero d’accordo e abbaierebbero addosso al padrone. Dove pigliasse queste idee non so, credo da suo padre e dai vagabondi; lui diceva ch’era come la guerra che s’era fatta nel ’18 – tanti cani scatenati dal padrone perché si ammazzassero e i padroni restare a comandare. Diceva che basta leggere il giornale – i giornali di allora – per capire che il mondo è pieno di padroni che aizzano i cani. Mi ricordo sovente di questa parola di Nuto in questi tempi, certi giorni che non hai neanche piú voglia di sapere quel che succede e soltanto andando per le strade vedi i fogli in mano alla gente neri di titoli come un temporale.

Adesso che avevo i primi soldi, mi venne voglia di sapere come vivevano Angiolina, la Giulia e Padrino. Ma non trovavo mai l’occasione di andarli a cercare. Chiedevo a quelli di Cossano che passavano sullo stradone, i giorni della vendemmia, portando il carro dell’uva a Canelli. Uno venne a dirmi una volta che mi aspettavano, la Giulia mi aspettava, si ricordavano di me. Io chiesi com’erano adesso le ragazze. — Che ragazze, – mi disse quel tale. – Sono due donne. Vanno a giornata come te —. Allora pensai proprio di andare a Cossano ma non trovavo mai il tempo, e d’inverno la strada era troppo brutta.

 

* * *

 

XIX.

 

Il primo giorno di mercato Cinto venne all’Angelo a prendere il coltello che gli avevo promesso. Mi dissero che un ragazzotto mi aspettava fuori e trovai lui vestito da festa, con gli zoccoletti, dietro a quattro che giocavano a carte. Suo padre, mi disse, era in piazza che guardava una zappa.

— Vuoi i soldi o il coltello? — gli chiesi. Voleva il coltello. Allora uscimmo nel sole, passammo in mezzo ai banchi delle stoffe e delle angurie, in mezzo alla gente, ai teli di sacco distesi a terra, pieni di ferri, di rampini, di vomeri, di chiodi, e cercavamo.

— Se tuo padre lo vede, – gli dissi, – è capace che te lo prende. Dove lo nascondi?

Cinto rideva, con quegli occhi senza ciglia. — Per mio padre, – disse. – Se me lo prende lo ammazzo.

Al banco dei coltelli gli dissi di scegliere lui. Non mi credeva. — Avanti, sbrígati —. Scelse un coltellino che fece gola anche a me: bello, grosso, color castagna d’india, con due lame a scatto e il cavatappi.

Poi tornammo all’albergo e gli chiesi se aveva trovate delle altre carte nei fossati. Lui teneva in mano il coltello, lo apriva e lo chiudeva, provandone le lame contro il palmo. Mi rispose di no. Gli dissi che io una volta mi ero comprato un coltello cosí sul mercato di Canelli, e mi era servito in campagna per segare i salici.

Gli feci dare un bicchiere di menta e mentre beveva gli chiesi se era già stato sul treno o in corriera. Piú che sul treno, mi rispose, gli sarebbe piaciuto andare in bicicletta, ma Gosto del Morone gli aveva detto che col suo piede era impossibile, ci sarebbe voluta una moto. Io cominciai a raccontargli di quando in California circolavo in camioncino, e stette a sentirmi senza piú guardare quei quattro che giocavano a tarocchi.

Poi mi disse: — Quest’oggi c’è la partita — e allargava gli occhi.

Stavo per dirgli: — E tu non ci vai? — ma sulla porta dell’Angelo comparve il Valino, nero. Lui lo sentí, se ne accorse prima ancora di vederlo, posò il bicchiere, e raggiunse suo padre. Sparirono insieme nel sole.

Cos’avrei dato per vedere ancora il mondo con gli occhi di Cinto, ricominciare in Gaminella come lui, con quello stesso padre, magari con quella gamba – adesso che sapevo tante cose e sapevo difendermi. Non era mica compassione che provavo per lui, certi momenti lo invidiavo. Mi pareva di sapere anche i sogni che faceva la notte e le cose che gli passavano in mente mentre arrancava per la piazza. Non avevo camminato cosí, non ero zoppo io, ma quante volte avevo visto passare le carrette rumorose con su le sediate di donne e ragazzi, che andavano in festa, alla fiera, alle giostre di Castiglione, di Cossano, di Campetto, dappertutto, e io restavo con Giulia e Angiolina sotto i noccioli, sotto il fico, sul muretto del ponte, quelle lunghe sere d’estate, a guardare il cielo e le vigne sempre uguali. E poi la notte, tutta la notte, per la strada si sentivano tornare cantando, ridendo, chiamandosi attraverso il Belbo. Era in quelle sere che una luce, un falò, visti sulle colline lontane, mi facevano gridare e rotolarmi in terra perch’ero povero, perch’ero ragazzo, perch’ero niente. Quasi godevo se veniva un temporale, il finimondo, di quelli d’estate, e gli guastava la festa. Adesso a pensarci rimpiangevo quei tempi, avrei voluto ritrovarmici.

E avrei voluto ritrovarmi nel cortile della Mora, quel pomeriggio d’agosto che tutti erano andati in festa a Canelli, anche Cirino, anche i vicini, e a me, che avevo soltanto degli zoccoli, avevano detto: — Non vuoi mica andarci scalzo. Resta a fare la guardia —. Era il prim’anno della Mora e non osavo rivoltarmi. Ma da un pezzo si aspettava quella festa: Canelli era sempre stata famosa, dovevano far l’albero della cuccagna e la corsa nei sacchi; poi la partita al pallone.

Erano andati anche i padroni e le figlie, e la bambina con l’Emilia, sulla carrozza grande; la casa era chiusa. Ero solo, col cane e coi manzi. Stetti un pezzo dietro la griglia del giardino, a guardare chi passava sulla strada. Tutti andavano a Canelli. Invidiai anche i mendicanti e gli storpi. Poi mi misi a tirar sassi contro la colombaia, per rompere le terrecotte, e li sentivo cadere e rimbalzare sul cemento del terrazzo. Per fare un dispetto a qualcuno presi la roncola e scappai nei beni, «cosí», pensavo, «non faccio la guardia. Bruciasse la casa, venissero i ladri». Nei beni non sentivo piú il chiacchiericcio dei passanti e questo mi dava ancor piú rabbia e paura, avevo voglia di piangere. Mi misi in caccia di cavallette e gli strappavo le gambe, rompendole alla giuntura. «Peggio per voi», gli dicevo, «dovevate andare a Canelli». E gridavo bestemmie, tutte quelle che sapevo.

Se avessi osato, avrei fatto in giardino un massacro di fiori. E pensavo alla faccia di Irene e di Silvia e mi dicevo che anche loro pisciavano.

Un carrozzino si fermò al cancello. — C’è nessuno? — sentii chiamare. Erano due ufficiali di Nizza che avevo già visto una volta sul terrazzo con loro. Stetti nascosto dietro il portico, zitto. — C’è nessuno? signorine! – gridavano. – Signorina Irene! — Il cane si mise a abbaiare, io zitto.

Dopo un po’ se ne andarono, e adesso avevo una soddisfazione. «Anche loro», pensavo, «bastardi». Entrai in casa per mangiarmi un pezzo di pane. La cantina era chiusa. Ma sul ripiano dell’armadio in mezzo alle cipolle c’era una bottiglia buona e la presi e andai a bermela tutta, dietro le dalie. Adesso mi girava la testa e ronzava come fosse piena di mosche. Tornai nella stanza, ruppi per terra la bottiglia davanti all’armadio, come se fosse stato il gatto, e ci versai un po’ d’acquetta per fare il vino. Poi me ne andai sul fienile.

Stetti ubriaco fino a sera, e da ubriaco abbeverai i manzi, gli cambiai strame e buttai il fieno. La gente cominciava a ripassare sulla strada, da dietro la griglia chiesi che cosa c’era attaccato sul palo della cuccagna, se la corsa era stata proprio nei sacchi, chi aveva vinto. Si fermavano a parlare volentieri, nessuno aveva mai parlato tanto con me. Adesso mi sembrava di essere un altro, mi dispiaceva addirittura di non aver parlato a quei due ufficiali, di non avergli chiesto che cosa volevano dalle nostre ragazze, e se credevano davvero che fossero come quelle di Canelli.

Quando la Mora tornò a popolarsi, io ne sapevo abbastanza sulla festa che potevo parlarne con Cirino, con l’Emilia, con tutti, come ci fossi stato. A cena ci fu ancora da bere. La carrozza grande tornò a notte tardissimo, ch’io dormivo da un pezzo e sognavo di arrampicarmi sulla schiena liscia di Silvia come fosse il palo della cuccagna, e sentii Cirino che si alzava per andare al cancello, e parlare, sbatter porte e il cavallo sbuffare. Mi girai sul saccone e pensai com’era bello che adesso ci fossimo tutti. L’indomani ci saremmo svegliati, saremmo usciti in cortile, e avrei ancora parlato e sentito parlare della festa.

 

* * *

 

XX.

 

Il bello di quei tempi era che tutto si faceva a stagione, e ogni stagione aveva la sua usanza e il suo gioco, secondo i lavori e i raccolti, e la pioggia o il sereno. L’inverno si rientrava in cucina con gli zoccoli pesanti di terra, le mani scorticate e la spalla rotta dall’aratro, ma poi, voltate quelle stoppie, era finita, e cadeva la neve. Si passavano tante ore a mangiar le castagne, a vegliare, a girare le stalle, che sembrava fosse sempre domenica. Mi ricordo l’ultimo lavoro dell’inverno e il primo dopo la merla – quei mucchi neri, bagnati, di foglie e di meligacce che accendevamo e che fumavano nei campi e sapevano già di notte e di veglia, o promettevano per l’indomani il bel tempo.

L’inverno era la stagione di Nuto. Adesso ch’era giovanotto e suonava il clarino, d’estate andava per i bricchi o suonava alla Stazione, soltanto d’inverno era sempre là intorno, a casa sua, alla Mora, nei cortili. Arrivava con quel berretto da ciclista e la maglia grigioverde e raccontava le sue storie. Che avevano inventato una macchina per contare le pere sull’albero, che a Canelli di notte dei ladri venuti da fuori avevano rubato il pisciatoio, che un tale a Calosso prima d’uscire metteva ai figli la museruola perché non mordessero. Sapeva le storie di tutti. Sapeva che a Cassinasco c’era un uomo che, venduta l’uva, stendeva i biglietti da cento su un canniccio e li teneva un’ora al sole la mattina, perché non patissero. Sapeva di un altro, ai Cumini, che aveva un’ernia come una zucca e un bel giorno aveva detto alla moglie di provare a mungerlo anche lui. Sapeva la storia dei due che avevano mangiato il caprone, e poi uno saltava e bramiva e l’altro dava cornate. Raccontava di spose, di matrimoni scombinati, di cascine col morto in cantina.

Dall’autunno a gennaio, bambini si gioca a biglie, e grandi a carte. Nuto sapeva tutti i giochi ma preferiva quello di nascondere e indovinare la carta, di farla uscire dal mazzo da sola, di cavarla dall’orecchio del coniglio. Ma quando entrava al mattino e mi trovava nell’aia al sole, rompeva in due la sigaretta e accendevamo; poi diceva: — E andiamo a vedere sui coppi —. Sui coppi voleva dire nella torretta della piccionaia, una soffitta che ci si saliva per la scala grande, sopra il ripiano dei padroni, e si stava chinati. Lassú c’era una cassa, tante molle rotte, trabiccoli e mucchi di crine. Un finestrino rotondo, che guardava la collina del Salto, mi sembrava la finestra di Gaminella. Nuto rovistava in quella cassa – c’era un carico di libri stracciati, di vecchi fogli color ruggine, quaderni della spesa, quadri rotti. Lui faceva passare quei libri, li sbatteva per levargli la muffa, ma a toccarli per un po’ le mani ghiacciavano. Era roba dei nonni, del padre del sor Matteo che aveva studiato in Alba. Ce n’era di scritti in latino come il libro da messa, di quelli con dei mori e delle bestie, e cosí avevo conosciuto l’elefante, il leone, la balena. Qualcuno Nuto se l’era preso e portato a casa sotto la maglia, «tanto», diceva, «non li adopera nessuno». — Cosa ne fai? – gli avevo detto, – non comprate già il giornale?

— Sono libri, – disse lui, – leggici dentro fin che puoi. Sarai sempre un tapino se non leggi nei libri.

Passando sul ripiano della scala si sentiva Irene suonare; certe mattine di bel sole era aperta la vetrata, e la voce del piano usciva sul terrazzo in mezzo ai tigli. A me faceva sempre effetto che un mobile cosí grosso, nero, con una voce che i vetri tremavano, lo suonasse lei sola, con quelle lunghe mani bianche da signorina. Ma suonava e, a detta di Nuto, anche bene. L’aveva studiato in Alba da bambina. Chi invece buttava le mani sul piano solo per chiasso e cantava e poi smetteva malamente, era Silvia. Silvia era piú giovane di un anno o due, e certe volte faceva ancora le scale di corsa – quell’anno andava in bicicletta e il figlio del capostazione le aveva tenuto il sellino.

Quando sentivo il pianoforte, io a volte mi guardavo le mani, e capivo che tra me e i signori, tra me e le donne, ce ne correva. Ancora adesso che da quasi vent’anni non lavoro piú di forza e scrivo il mio nome come non avrei mai creduto, se mi guardo le mani capisco che non sono un signore e che tutti si possono accorgere che ho tenuto la zappa. Ma ho imparato che le donne non ci fan caso neanche loro.

Nuto aveva detto a Irene che suonava come un’artista e che tutto il giorno lui sarebbe stato a ascoltare. E Irene allora l’aveva chiamato sul terrazzo (anch’io c’ero andato con lui) e a vetrata aperta aveva suonato dei pezzi difficili ma proprio belli, che riempivano la casa e si dovevano sentire fin nella vigna bianca sulla strada. Mi piaceva, accidenti. Nuto ascoltava con le labbra in fuori come avesse imboccato il clarino, e io vedevo per la vetrata i fiori nella stanza, gli specchi, la schiena dritta d’Irene e le braccia che facevano sforzo, la testa bionda sul foglio. E vedevo la collina, le vigne, le rive – capivo che quella musica non era la musica che suonano le bande, parlava d’altro, non era fatta per Gaminella né per le albere di Belbo né per noi. Ma si vedeva anche, in distanza, sul profilo del Salto verso Canelli, la palazzina del Nido, rossa in mezzo ai suoi platani secchi. E con la palazzina, coi signori di Canelli, la musica d’Irene ci stava, era fatta per loro.

— No! – gridò a un tratto Nuto, – sbagliato! — Irene s’era già ripresa e ributtata a suonare, ma chinò la testa e guardò lui un attimo, quasi rossa, ridendo. Poi Nuto entrò nella stanza, e le voltava i fogli e discutevano e Irene suonò ancora. Io restai sul terrazzo e guardavo sempre il Nido, e Canelli.

Quelle due figlie del sor Matteo non erano per me, e nemmeno per Nuto. Erano ricche, troppo belle, alte. Loro compagnia erano ufficiali, signori, geometri, giovanotti cresciuti. La sera tra noi, tra l’Emilia, Cirino, la Serafina, c’era sempre qualcuno che sapeva con chi parlava adesso Silvia, a chi andavano le lettere che Irene scriveva, chi le aveva accompagnate la sera prima. E si diceva che la matrigna non voleva sposarle, non voleva che andassero via portandosi le cascine, cercava di far grossa la dote per la sua Santina. — Sí sí, valle a tenere, – diceva il massaro, – due ragazze cosí.

Io stavo zitto, e certi giorni d’estate, seduto a Belbo, pensavo a Silvia. A Irene, cosí bionda, non osavo pensare. Ma un giorno che Irene era venuta a far giocare Santina nella sabbia e non c’era nessuno, le vidi correre e fermarsi all’acqua. Stavo nascosto dietro un sambuco. La Santina gridava mostrando qualcosa sull’altra riva. E allora Irene aveva posato il libro, s’era chinata, tolte le scarpe e le calze, e cosí bionda, con le gambe bianche, sollevandosi la gonna al ginocchio, era entrata nell’acqua. Traversò adagio, toccando prima col piede. Poi gridando a Santina di non muoversi, aveva raccolto dei fiori gialli. Me li ricordo come fosse ieri.

 

* * *