Cesare Pavese – La Luna e i falò (Parte 4)

 

* * *

 

XIII.

 

Si riparlò di questa storia, in paese. Quel parroco era in gamba. Batté il ferro l’indomani dicendo una messa per i poveri morti, per i vivi ch’erano ancora in pericolo, per quelli che dovevano nascere. Raccomandò di non iscriversi ai partiti sovversivi, di non leggere la stampa anticristiana e oscena, di non andare a Canelli se non per affari, di non fermarsi all’osteria, e alle ragazze di allungarsi i vestiti. A sentire i discorsi che facevano adesso donnette e negozianti in paese, il sangue era corso per quelle colline come il mosto sotto i torchi. Tutti eran stati derubati e incendiati, tutte le donne ingravidate. Fin che l’ex podestà disse chiaro, sui tavolini dell’Angelo, che ai tempi di prima queste cose non succedevano. Allora saltò su il camionista – uno di Calosso, grinta dura – che gli chiese dov’era finito, ai tempi di prima, quello zolfo del Consorzio.

Tornai da Nuto e lo trovai che misurava degli assi, sempre imbronciato. La moglie in casa dava il latte al bambino. Gli gridò dalla finestra ch’era scemo a pigliarsela, che nessuno aveva mai guadagnato niente con la politica. Io per tutto lo stradone, dal paese al Salto, avevo rimuginato queste cose ma non sapevo come dirgli la mia. Adesso Nuto mi guardò, sbatté la riga e mi chiese brusco se non ne avevo abbastanza, che cosa ci trovavo in questi paesacci.

— Dovevate farla allora, – gli dissi, – non è da furbi cimentare le vespe.

Allora lui gridò dentro la finestra: — Comina, vado via —. Raccolse la giacca e mi disse: — Vuoi bere? — Mentre aspettavo raccomandò qualcosa ai garzoni sotto la tettoia; poi si volta e mi fa: — Sono stufo. Andiamocene fuori dai piedi.

Ci arrampicammo per il Salto. Da principio non si parlava, o si diceva solamente: «L’uva quest’anno è bella». Passammo tra la riva e la vigna di Nuto. Lasciammo la stradetta e prendemmo il sentiero – ripido che bisognava mettere i piedi di costa. Alla svolta di un filare incocciammo il Berta, il vecchio Berta che non usciva piú dai beni. Mi soffermai per dir qualcosa, per farmi conoscere – mai piú avrei creduto di ritrovarlo ancora vivo e cosí sdentato – ma Nuto tirò dritto; disse soltanto: — Salutiamo —. Il Berta non mi conobbe di certo.

Fin qui ero salito un tempo, dove finiva il cortile della casa dello Spirita. Ci venivamo in novembre a rubargli le nespole. Cominciai a guardarmi sotto i piedi – le vigne asciutte e gli strapiombi, il tetto rosso del Salto, il Belbo e i boschi. Anche Nuto adesso rallentava, e andavamo testardi, sostenuti.

— Il brutto, – disse Nuto, – è che siamo degli ignoranti. Il paese è tutto in mano a quel prete.

— Vuoi dire? Perché non gli rispondi?

— Vuoi rispondere in chiesa? Quest’è un paese che un discorso lo puoi soltanto fare in chiesa. Se no, non ti credono... La stampa oscena e anticristiana, lui dice. Se non leggono neanche l’almanacco.

— Bisogna uscire dal paese, – gli dissi. – Sentire le altre campane, prender aria. A Canelli è diverso. Hai sentito che l’ha detto anche lui che Canelli è l’inferno.

— Bastasse.

— Si comincia. Canelli è la strada del mondo. Dopo Canelli viene Nizza. Dopo Nizza Alessandria. Da soli non farete mai niente.

Nuto cacciò un sospiro e si fermò. Mi soffermai anch’io e guardai giú nella vallata.

— Se vuoi combinare qualcosa, – dissi, – devi tenere i contatti col mondo. Non avete dei partiti che lavorano per voi, dei deputati, della gente apposta? Parlate, trovatevi. In America fanno cosí. La forza dei partiti è fatta di tanti piccoli paesi come questo. I preti non lavorano mica isolati, hanno dietro tutta una lega di altri preti... Perché quel deputato che ha parlato alle Ca’ Nere non ci torna?...

Ci sedemmo all’ombra di quattro canne, sull’erba dura, e Nuto mi spiegò perché il deputato non tornava. Dal giorno della liberazione – quel sospirato 25 aprile – tutto era andato sempre peggio. In quei giorni sí che s’era fatto qualcosa. Se anche i mezzadri e i miserabili del paese non andavano loro per il mondo, nell’anno della guerra era venuto il mondo a svegliarli. C’era stata gente di tutte le parti, meridionali, toscani, cittadini, studenti, sfollati, operai – perfino i tedeschi, perfino i fascisti eran serviti a qualcosa, avevano aperto gli occhi ai piú tonti, costretto tutti a mostrarsi per quello che erano, io di qua tu di là, tu per sfruttare il contadino, io perché abbiate un avvenire anche voi. E i renitenti, gli sbandati, avevano fatto vedere al governo dei signori che non basta la voglia per mettersi in guerra. Si capisce, in tutto quel quarantotto s’era fatto anche del male, s’era rubato e ammazzato senza motivo, ma mica tanti: sempre meno – disse Nuto – della gente che i prepotenti di prima hanno messo loro su una strada o fatto crepare. E poi? com’era andata? Si era smesso di stare all’erta, si era creduto agli alleati, si era creduto ai prepotenti di prima che adesso – passata la grandine – sbucavano fuori dalle cantine, dalle ville, dalle parrocchie, dai conventi. — E siamo a questo, – disse Nuto, – che un prete che se suona ancora le campane lo deve ai partigiani che gliele hanno salvate, fa la difesa della repubblica e di due spie della repubblica. Se anche fossero stati fucilati per niente, – disse, – toccava a lui fare la forca ai partigiani che sono morti come mosche per salvare il paese?

Mentre parlava, io mi vedevo Gaminella in faccia, che a quell’altezza sembrava piú grossa ancora, una collina come un pianeta, e di qui si distinguevano pianori, alberetti, stradine che non avevo mai visto. Un giorno, pensai, bisogna che saliamo lassú. Anche questo fa parte del mondo. Chiesi a Nuto: — Di partigiani ce ne stavano lassú?

— I partigiani sono stati dappertutto, – disse. – Gli hanno dato la caccia come alle bestie. Ne sono morti dappertutto. Un giorno sentivi sparare sul ponte, il giorno dopo erano di là da Bormida. E mai che chiudessero un occhio tranquilli, che una tana fosse sicura... Dappertutto le spie...

— E tu l’hai fatto il partigiano? ci sei stato?

Nuto trangugiò e scosse la testa. — Si è fatto tutti qualcosa. Troppo poco... ma c’era pericolo che una spia mandasse a bruciarti la casa...

Studiavo di lassú la piana di Belbo, e i tigli, il cortile basso della Mora, quelle campagne – tutto impiccolito e stranito. Non l’avevo mai vista di lassú, cosí piccola.

— L’altro giorno sono passato sotto la Mora, – dissi. – Non c’è piú il pino del cancello...

— L’ha fatto tagliare il ragioniere, Nicoletto. Quell’ignorante... L’ha fatto tagliare perché i pezzenti si fermavano all’ombra e chiedevano. Capisci? non gli basta che si è mangiata mezza la casa. Non vuole nemmeno che un povero si fermi all’ombra e gli chieda conto...

— Ma com’è stato andare cosí al diavolo? Gente che aveva la carrozza. Col vecchio non sarebbe successo...

Nuto non disse nulla e strappava ciuffi d’erba secca.

— Non c’era soltanto Nicoletto, – dissi. – E le ragazze? Quando ci penso, mi gira il sangue. Va bene che gli piaceva divertirsi a tutt’e due e che Silvia era una scema che cascava con tutti, ma fin che il vecchio è stato vivo, l’hanno sempre aggiustata... Almeno la matrigna non doveva morire... E la piccola, Santina, che fine ha fatto?

Nuto pensava ancora al suo prete e alle spie, perché storse la bocca un’altra volta e trangugiò saliva.

— Stava a Canelli, – disse. – Non potevano soffrirsi con Nicoletto. Teneva allegre le brigate nere. Tutti lo sanno. Poi un giorno è sparita.

— Possibile? – dissi. – Ma cos’ha fatto? Santa Santina? Pensare che a sei anni era cosí bella...

— Tu non l’hai vista a venti, – disse Nuto, – le altre due non erano niente. L’hanno viziata, il sor Matteo non vedeva piú che lei... Ti ricordi quando Irene e Silvia non volevano uscire con la matrigna per non sfigurare? Ebbene Santa era piú bella di loro due e della madre insieme.

— Ma come, è sparita? Non si sa cos’ha fatto?

Nuto disse: — Si sa. La cagnetta.

— Che cosa c’è di cosí brutto?

— La cagnetta e la spia.

— L’hanno ammazzata?

— Andiamo a casa, – disse Nuto. – Volevo svagarmi ma neanche con te non posso.

 

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XIV.

 

Pareva un destino. Certe volte mi chiedevo perché, di tanta gente viva, non restassimo adesso che io e Nuto, proprio noi. La voglia che un tempo avevo avuto in corpo (un mattino, in un bar di San Diego, c’ero quasi ammattito) di sbucare per quello stradone, girare il cancello tra il pino e la volta dei tigli, ascoltare le voci, le risate, le galline, e dire «Eccomi qui, sono tornato» davanti alle facce sbalordite di tutti – dei servitori, delle donne, del cane, del vecchio – e gli occhi biondi e gli occhi neri delle figlie mi avrebbero riconosciuto dal terrazzo – questa voglia non me la sarei cavata piú. Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna – dormivo all’Angelo e discorrevo col Cavaliere –, ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c’erano piú. Da un pezzo non c’erano piú. Quel che restava era come una piazza l’indomani della fiera, una vigna dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha piantato. Nuto, l’unico che restava, era cambiato, era un uomo come me. Per dire tutto in una volta, ero un uomo anch’io, ero un altro – se anche avessi ritrovato la Mora come l’avevo conosciuta il primo inverno, e poi l’estate, e poi di nuovo estate e inverno, giorno e notte, per tutti quegli anni, magari non avrei saputo che farmene. Venivo da troppo lontano – non ero piú di quella casa, non ero piú come Cinto, il mondo mi aveva cambiato.

Le sere d’estate quando stavamo seduti sotto il pino o sul trave nel cortile, a vegliare – passanti si soffermavano al cancello, donne ridevano, qualcuno usciva dalla stalla – il discorso finiva sempre che i vecchi, massaro Lanzone, Serafina, e qualche volta, se scendeva, il sor Matteo, dicevano «Sí sí giovanotti, sí sí ragazze... pensate a crescere... cosí dicevano i nostri nonni... si vedrà quando toccherà a voi». A quei tempi non mi capacitavo che cosa fosse questo crescere, credevo fosse solamente fare delle cose difficili – come comprare una coppia di buoi, fare il prezzo dell’uva, manovrare la trebbiatrice. Non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare la Mora com’era adesso. Tra me pensavo: «Mangio un cane se non vado a Canelli. Se non vinco la bandiera. Se non mi compro una cascina. Se non divento piú bravo di Nuto». Poi pensavo al biroccio del sor Matteo e delle figlie. Al terrazzo. Al pianoforte nel salotto. Pensavo alle bigonce e alle stanze del grano. Alla festa di S. Rocco. Ero un ragazzo che cresceva.

L’anno che grandinò e che poi Padrino dovette vendere il casotto e andare servitore a Cossano, già varie volte nell’estate mi aveva mandato a giornata alla Mora. Avevo tredici anni ma qualcosa facevo, e gli portavo qualche soldo. Traversavo Belbo la mattina – una volta venne anche Giulia – e con le donne, coi servitori, con Cirino, Serafina, aiutavamo a far le noci, la meliga, a vendemmiare, a governare le bestie. A me piaceva quel cortile cosí grande – ci si stava in tanti e nessuno ti cercava – e poi era vicino allo stradone, sotto il Salto. Tante facce nuove, la carrozza, il cavallo, le finestre con le tendine. Fu la prima volta che vidi dei fiori, dei veri fiori, come quelli che c’erano in chiesa. Sotto i tigli, dalla parte del cancello c’era il giardino, pieno di zinie, di gigli, di stelline, di dalie – capii che i fiori sono una pianta come la frutta – facevano il fiore invece del frutto e si raccoglievano, servivano alla signora, alle figlie, che uscivano col parasole e quando stavano in casa li aggiustavano nei vasi. Irene e Silvia avevano allora diciotto-vent’anni, le intravedevo qualche volta. Poi c’era Santina, la sorellastra appena nata, che l’Emilia correva a cullare di sopra tutte le volte che si sentiva strillare.

La sera, al casotto di Gaminella, raccontavo queste cose all’Angiolina, a Padrino, a Giulia, se non era venuta anche lei, e Padrino diceva: — Quello è un uomo che può comprarci tutti quanti. Sta bene Lanzone con lui. Il sor Matteo non morirà mai su una strada. Puoi dirlo —. Perfino la grandine, che ci aveva pelato la vigna, non aveva battuto di là da Belbo, e tutti i beni della piana e del Salto luccicavano come la schiena di un manzo. — Siamo a terra, – diceva Padrino, – come faccio a pagare il Consorzio? — Già vecchio com’era, il suo spavento era di finire senza tetto né terra. — E vendi, – gli diceva l’Angiolina a denti stretti, – in qualche posto andremo. — Ci fosse ancora tua mamma, — brontolava Padrino. Io capivo che quell’autunno era l’ultimo, e quando andavo per la vigna o nella riva stavo sempre col sopraffiato che mi chiamassero, che venisse qualcuno a mandarmi via. Perché sapevo di non essere nessuno.

Poi andò che s’intromise il parroco – quello d’allora, un vecchione dalle nocche dure – che comprò per qualcun altro, parlò col Consorzio, andò lui fino a Cossano, aggiustò le ragazze e Padrino – e io, quando venne il carretto per prendere l’armadio e i sacconi, andai nella stalla a staccare la capra. Non c’era piú, l’avevano venduta anche lei. Mentre piangevo per la capra, arrivò il parroco – aveva un grosso ombrello grigio e le scarpe infangate – e mi guardò di traverso. Padrino girava per il cortile e si tirava i baffi. — Tu, – mi disse il prete, – non fare la donnetta. Che cos’è questa casa per te? Sei giovane e hai tanto tempo davanti. Pensa a crescere per ripagare questa gente del bene che ti hanno fatto...

Io sapevo già tutto. Sapevo e piangevo. Le ragazze erano in casa e non uscivano per via del parroco. — Nella cascina dove va Padrino, – disse costui, – sono già troppe le tue sorelle. Ti abbiamo trovato una casa come si deve. Ringraziami. Là ti faranno lavorare.

Cosí, coi primi freddi, entrai alla Mora. L’ultima volta che passai Belbo non mi voltai indietro. Lo passai con gli zoccoli in spalla, il mio fagottino, e quattro funghi in un fazzoletto che l’Angiolina mandava alla Serafina. Li avevamo trovati io e Giulia in Gaminella.

Chi mi accolse alla Mora fu Cirino il servitore, col permesso del massaro e di Serafina. Mi fece subito vedere la stalla dove c’erano i manzi, la vacca, e dietro uno steccato il cavallo da tiro. Sotto la tettoia c’era il biroccio verniciato nuovo. Al muro, tanti finimenti e staffili coi fiocchetti. Disse che quelle notti dormivo ancora sul fienile; poi mi avrebbe messo un saccone nella stanza dei grani dove dormiva lui. Questa e la stanza grande del torchio e la cucina non avevano in terra il battuto ma il cemento. In cucina c’era un armadio coi vetri e tante tazze, e sopra il camino dei festoni di carta rossa lucida, che l’Emilia mi disse guai al mondo se toccavo. La Serafina guardò la mia roba, mi chiese se facevo conto di crescere ancora, disse all’Emilia che mi trovasse una giacca per l’inverno. Il primo lavoro che feci fu di rompere una fascina e macinare il caffè.

Chi mi disse che sembravo un’anguilla fu l’Emilia. Quella sera mangiammo ch’era già scuro, alla luce della lampada a petrolio, tutti in cucina – le due donne, Cirino, e massaro Lanzone mi disse che la vergogna a tavola stava bene, ma che il lavoro andava fatto con franchezza. Mi chiesero della Virgilia, dell’Angiolina, di Cossano. Poi l’Emilia la chiamarono di sopra, il massaro andò in stalla e restai solo con Cirino davanti alla tavola coperta di pane, di formaggio, di vino. Allora mi feci coraggio e Cirino mi disse che alla Mora ce n’era per tutti.

Cosí venne l’inverno e cadde molta neve e il Belbo gelò – si stava al caldo in cucina o nella stalla, c’era soltanto da spalare il cortile e davanti al cancello, si andava a prendere un’altra fascina – o bagnavo i salici per Cirino, portavo l’acqua, giocavo alle biglie coi ragazzi. Venne Natale, Capodanno, l’Epifania; si arrostivano le castagne, tirammo il vino, mangiammo due volte il tacchino e una l’oca. La signora, le figlie, il sor Matteo si facevano attaccare il biroccio per andare a Canelli; una volta portarono a casa del torrone e ne diedero all’Emilia. La domenica andavo a messa in paese coi ragazzi del Salto, con le donne, e portavamo il pane a cuocere. La collina di Gaminella era brulla, bianca di neve, la vedevo in mezzo ai rami secchi di Belbo.

 

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XV.

 

Non so se comprerò un pezzo di terra, se mi metterò a parlare alla figlia del Cola – non credo, la mia giornata sono adesso i telefoni, le spedizioni, i selciati delle città – ma anche prima che tornassi mi succedeva tante volte uscendo da un bar, salendo su un treno, rientrando la sera, di fiutare la stagione nell’aria, di ricordarmi che era il tempo di potare, di mietere, di dare il solfato, di lavare le tine, di spogliare le canne.

In Gaminella non ero niente, alla Mora imparai un mestiere. Qui piú nessuno mi parlò delle cinque lire del municipio, l’anno dopo non pensavo già piú a Cossano – ero Anguilla e mi guadagnavo la pagnotta. Sulle prime non fu facile perché le terre della Mora andavano dalla piana del Belbo a metà collina e io, avvezzo alla vigna di Gaminella dove bastava Padrino, mi confondevo, con tante bestie e tante colture e tante facce. Non avevo mai visto prima lavorare a servitori, e fare tante carrate di grano, tante di meliga, tanta vendemmia. Soltanto le fave e i ceci sotto la strada li calcolavamo a sacchi. Tra noialtri e i padroni eravamo in piú di dieci a mangiare, e vendevamo l’uva, vendevamo il grano e le noci, vendevamo di tutto, e il massaro metteva ancora da parte, il sor Matteo teneva il cavallo, le sue figlie suonavano il piano e andavano e venivano dalle sarte a Canelli, l’Emilia li serviva in tavola.

Cirino m’insegnò a trattare i manzi, a cambiargli lo strame non appena stallavano. — Lanzone vuole i manzi come spose, — mi disse. M’insegnò a strigliarli bene, a preparargli il beverone, a passargli la forcata giusta di fieno. A S. Rocco li portavano alla fiera e il massaro ci guadagnava i suoi marenghi. In primavera, quando spargemmo il letame, conducevo io il carretto fumante. Con la bella stagione, si trattò di uscire nei beni prima di giorno e bisognava attaccare la bestia nel cortile col buio, sotto le stelle. Adesso avevo una giacca che mi toccava le ginocchia e stavo caldo. Poi col sole arrivavano la Serafina, o l’Emilia, a portare il vinello, o facevo io una scappata a casa e mangiavamo colazione, il massaro diceva i lavori della giornata, di sopra cominciavano a muoversi, sullo stradone passava gente, alle otto si sentiva il fischio del primo treno. La giornata la passavo a far erba, a voltare i fieni, a tirar l’acqua, a preparare il verderame, a bagnare l’orto. Quando correva la giornata dei braccianti, il massaro mi mandava a tenerli d’occhio, che zappassero, che dessero bene lo zolfo o il verderame sotto la foglia, che non si fermassero a discorrere in fondo alla vigna. E i braccianti dicevano a me ch’ero uno come loro, che li lasciassi fumare in pace la cicca. — Sta’ attento come si fa, – mi diceva Cirino sputandosi sulle mani e levando la zappa, – un altr’anno attacchi anche tu a lavorare.

Perché adesso non lavoravo ancora veramente; le donne mi chiamavano nel cortile, mi mandavano a far questo e quello, mi tenevano in cucina mentre impastavano e accendevano il fuoco, e io stavo a sentire, vedevo chi andava e veniva. Cirino, ch’era un servitore come me, teneva conto ch’ero soltanto un ragazzo e mi dava delle commissioni che mi tenevano sotto gli occhi delle donne. Lui con le donne non ci stava molto; era quasi vecchio, senza famiglia, e la domenica accendendo il toscano mi raccontava che nemmeno in paese lui ci andava volentieri, preferiva ascoltare dietro la griglia quel che dicevano i passanti. Certe volte scappavo sullo stradone fino alla casa del Salto, nella bottega del padre di Nuto. Qui c’eran già tutti quei trucioli e quei gerani che ci sono ancora adesso. Qui chiunque passasse, andando a Canelli o tornando, si fermava a dir la sua, e il falegname maneggiava le pialle, maneggiava lo scalpello o la sega, e parlava con tutti, di Canelli, dei tempi di una volta, di politica, della musica e dei matti, del mondo. C’era dei giorni che potevo fermarmi perché avevo qualche commissione da fare, e mi bevevo quei discorsi mentre giocavo con gli altri ragazzi, come se i grandi li facessero per me. Il padre di Nuto leggeva il giornale.

Anche in casa di Nuto dicevano bene del sor Matteo; raccontavano di quando era stato soldato in Africa e che tutti l’avevano già dato per morto, la parrocchia, la fidanzata, sua madre, e il cane che piangeva giorno e notte nel cortile. E una sera, ecco che passa il treno di Canelli dietro le albere, e il cane si mette a abbaiare frenetico, e la madre capí subito che c’era sopra Matteo che tornava. Cose vecchie – la Mora a quei tempi non aveva che il rustico, le figlie non erano ancor nate, e il sor Matteo era sempre a Canelli, sempre in giro sul biroccio, sempre a caccia. Scavezzacollo, ma alla mano. Trattava gli affari ridendo e cenando. Ancora adesso, la mattina si mangiava un peperone e sopra ci beveva il vino buono. Aveva da un pezzo sotterrata la moglie che gli aveva fatto le due figlie; fatta da poco un’altra figliola con questa donna che adesso era entrata in casa, e per quanto già vecchio scherzava e comandava sempre lui.

Il sor Matteo non aveva mai lavorato la terra, era un signore il sor Matteo, ma neanche aveva studiato o viaggiato. Salvo quella volta dell’Africa, non era mai andato piú in là di Acqui. Aveva avuto la mania delle donne – lo diceva anche Cirino – come suo nonno e suo padre avevano avuto la mania della roba e messo insieme le cascine. Erano un sangue cosí, fatto di terra e di voglie sostanziose, gli piaceva l’abbondanza, a chi il vino, il grano, la carne, a chi le donne e i marenghi. Mentre il nonno era stato uno che zappava e lavorava le sue terre, già i figli eran cambiati e preferivano godersela. Ma ancora adesso il sor Matteo a un’occhiata sapeva dire quanti miria doveva fare una vigna, quanti sacchi quel campo, quanto concime ci voleva per quel prato. Quando il massaro gli portava i conti, si chiudevano di sopra in una stanza, e l’Emilia che serviva il caffè ci diceva che il sor Matteo sapeva già i conti a memoria e si ricordava di un carretto, di un cestino, di una giornata dell’anno prima perduta.

Quella scala che conduceva di sopra, dietro la porta a vetri, io per un pezzo non ci salii, mi faceva troppa paura. L’Emilia che andava e veniva e mi poteva comandare perché era nipote del massaro e quando di sopra avevano qualcuno serviva lei col grembialino, l’Emilia a volte mi chiamava dalle finestre, dal terrazzo, che salissi, facessi, le portassi qualcosa. Io cercavo di sparire sotto il portico. Una volta che dovetti andar su con un secchio, lo posai sui mattoni del pianerottolo e scappai. E mi ricordo la mattina, che c’era da far qualcosa alla grondaia sul terrazzo, e mi chiamarono a tenere la scala per l’uomo che aggiustava. Passai il pianerottolo, traversai due stanze scure, piene di mobili, di almanacchi, di fiori – era tutto lucido, leggero, come gli specchi – io camminavo scalzo sui mattoni rossi, sbucò la signora, nera, col medaglione al collo e un lenzuolo sul braccio, mi guardò i piedi.

Dal terrazzo l’Emilia gridava: — Anguilla, vieni Anguilla.

— Milia mi chiama, — balbettai.

— Va’ va’, – disse lei, – passa presto.

Sul terrazzo stendevano i lenzuoli lavati, e c’era il sole, e in fondo verso Canelli la palazzina del Nido. C’era anche Irene, la bionda, appoggiata alla ringhiera con un asciugamano sulle spalle, che si faceva asciugare i capelli. E l’Emilia che teneva lei la scala, mi gridò: — Vieni su, muoviti.

L’Irene disse qualcosa, ridevano. Per tutto il tempo che tenni la scala guardai il muro e il cemento, e per sfogarmi pensavo ai discorsi che facevamo tra noi ragazzi quando andavamo a nasconderci tra le canne.

 

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XVI.

 

Dalla Mora si scende piú facilmente a Belbo che non da Gaminella, perché la strada di Gaminella strapiomba sull’acqua in mezzo a rovi e gaggie. Invece la riva di là è fatta di sabbie, di salici e canne basse erbose, di spaziosi boschi di albere che si stendono fino ai coltivi della Mora. Certi giorni di quelle canicole, quando Cirino mi mandava per roncare o far salici, io lo dicevo ai miei soci e ci trovavamo sulle rive dell’acqua – chi veniva con la cesta rotta chi col sacco, e nudi pescavamo e giocavamo. Correvamo al sole sulla sabbia rovente. Era qui che mi vantavo del mio soprannome di Anguilla, e fu allora che Nicoletto per l’invidia disse che ci avrebbe fatto la spia e cominciò a chiamarmi bastardo. Nicoletto era il figlio di una zia della signora, e nell’inverno stava in Alba. Ci prendevamo a sassate, ma dovevo stare attento a non fargli male, perché la sera non avesse lividi da mostrare alla Mora. Poi c’erano le volte che il massaro o le donne lavorando nei campi ci vedevano, e allora cosí nudo dovevo correre a nascondermi e sbucare nei beni tirandomi su i calzoni. Un pugno in testa e una parola del massaro non me li levava nessuno.

Ma questo era niente rispetto alla vita che faceva adesso quel Cinto. Suo padre gli era sempre addosso, lo sorvegliava dalla vigna, le due donne lo chiamavano, lo maledicevano, volevano che invece di fermarsi dal Piola tornasse a casa con l’erba, con pannocchie di meliga, con pelli di coniglio, con buse. Tutto mancava in quella casa. Non mangiavano pane. Bevevano acquetta. Polenta e ceci, pochi ceci. Io so cos’è, so che cosa vuol dire zappare o dare il solfato nelle ore bruciate, con l’appetito e con la sete. So che la vigna del casotto non bastava neanche a noi, e a noi non ci toccava spartire.

Il Valino non parlava con nessuno. Zappava, potava, legava, sputava, riparava; prendeva il manzo a calci in faccia, masticava la polenta, alzava gli occhi nel cortile, comandava con gli occhi. Le donne correvano, Cinto scappava. La sera poi, quand’era l’ora di andare a dormire – Cinto cenava rosicchiando per le rive –, il Valino pigliava lui, pigliava la donna, pigliava chi gli capitava, sull’uscio, sulla scala del fienile, e gli menava staffilate con la cinghia.

Mi bastò quel poco che avevo sentito da Nuto, e la faccia sempre attenta, sempre tesa, di Cinto quando lo trovavo sulla strada e gli parlavo, per capire cos’era adesso Gaminella. C’era la storia del cane che lo tenevano legato e non gli davano da mangiare, e il cane di notte sentiva i ricci, sentiva i pipistrelli e le faine e saltava come un matto per prenderli, e abbaiava, abbaiava alla luna che gli pareva la polenta. Allora il Valino scendeva dal letto, lo ammazzava di cinghiate e di calci anche lui.

Un giorno decisi Nuto a venire in Gaminella per guardare quella tina. Non voleva saperne; diceva: — So già che se gli parlo gli do del tapino, gli dico che fa la vita di una bestia. E posso dirgli questa cosa? Servisse... Bisogna prima che il governo bruci il soldo e chi lo difende...

Per strada gli chiesi se era proprio convinto che fosse la miseria a imbestiare la gente. — Non hai mai letto sul giornale quei milionari che si drogano e si sparano? Ci sono dei vizi che costano soldi...

Lui mi rispose che ecco, sono i soldi, sempre i soldi: averli o non averli, fin che esistono loro non si salva nessuno.

Quando fummo al casotto uscí fuori la cognata, Rosina, quella che aveva anche i baffi, e disse che il Valino era al pozzo. Stavolta non si fece aspettare, venne lui, disse alla donna: — Dàgli a sto cane — e non ci tenne in cortile neanche un momento. — Allora, – disse a Nuto, – vuoi vedere quella tina?

Io sapevo dov’era la tina, sapevo la volta bassa, i mattoni rotti e le ragnatele. Dissi: — Aspetto in casa un momento — e misi finalmente il piede su quello scalino.

Non feci in tempo a guardarmi intorno, che sentii piagnucolare, gemere adagio, esclamare, come fosse una gola troppo stanca per alzare la voce. Fuori il cane si dibatteva e urlava. Sentii guaire, un colpo sordo, urli acuti – gli avevano dato.

Io intanto vidi. La vecchia era seduta sul saccone contro il muro, ci stava rannicchiata di fianco, mezzo in camicia, coi piedi neri che sporgevano, e guardava la stanza, guardava la porta, faceva quel verso. Il saccone era tutto rotto, e la foglia usciva.

La vecchia era piccola, la faccia grossa come il pugno – quei bambinetti che borbottano a pugni chiusi mentre la donna canterella sulla culla. C’era odore di chiuso, di orina stantia, di aceto. Si capiva che quel verso lo faceva giorno e notte e nemmeno sapeva di farlo. Con gli occhi fermi ci guardò sulla porta, e non cambiò tono, non disse niente.

Mi sentii la Rosina dietro, feci un passo. Allora le cercai gli occhi e stavo per dire. «Questa muore, cos’ha?» ma la cognata non rispose al mio gesto, disse invece: — Se si contenta — e diede mano a una sedia di legno, me la mise davanti.

La vecchia gemeva come un passero dall’ala rotta. Guardai la stanza ch’era cosí piccola, cambiata. Soltanto la finestretta era quella e le mosche che volavano, e la crepa della pietra sul camino. Adesso sopra una cassa contro il muro c’era una zucca, due bicchieri e una treccia d’aglio.

Uscii quasi subito, e la cognata dietro come un cane. Sotto il fico le chiesi cos’aveva la vecchia. Mi rispose ch’era vecchia e parlava da sola, diceva il rosario.

— Possibile? non si lamenta di dolori?

Alla sua età, disse la donna, sono tutti dolori. Qualunque cosa uno dica, è lamentarsi. Mi guardò per traverso. — Ci tocca a tutte, — disse.

Poi si fece alla proda del prato e si mise a urlare «Cinto Cinto», come se la scannassero, come se piangesse anche lei. Cinto non venne.

Uscirono invece Nuto e il padre, dalla stalla. — Avete una bella bestia, – diceva Nuto, – le basta la vettovaglia di qui?

— Sei matto, – diceva il Valino, – tocca alla padrona.

— Come sono le cose, – disse Nuto, – un padrone provvede la vettovaglia per la bestia, non la provvede a chi gli lavora la terra...

Il Valino aspettava. — Andiamo andiamo, – disse Nuto, – abbiamo fretta. Allora vi mando quel mastice.

Scendendo il sentiero mi borbottò che c’era di quelli che avrebbero accettato un bicchiere anche dal Valino. — Con la vita che fa, — disse rabbioso.

Poi tacemmo. Io pensavo alla vecchia. Dietro le canne, sbucò fuori Cinto col fagotto d’erba. Ci veniva incontro arrancando e Nuto mi disse che avevo un bel fegato a empirgli la testa di voglie.

— Che voglie? qualunque altra vita sarebbe meglio per lui...

Tutte le volte che incontravo Cinto io pensavo di regalargli qualche lira, ma poi mi trattenevo. Non l’avrebbe goduta, che cosa poteva farne? Ma stavolta ci fermammo e fu Nuto che gli disse: — L’hai trovata la vipera?

Cinto ghignò e disse: — Se la trovo le taglio la testa.

— Se tu non la cimenti, neanche la vipera non ti morde, — disse Nuto.

Allora mi ricordai dei miei tempi e dissi a Cinto: – Se passi domenica dall’Angelo, ti regalo un bel coltello chiuso, col fermaglio.

— Sí? — disse Cinto, con gli occhi aperti.

— Dico di sí. Sei mai andato a trovar Nuto al Salto? Ti piacerebbe. Ci sono i banchi, le pialle, i cacciavite... Se tuo padre ti lasciasse, io ti faccio insegnare qualche mestiere.

Cinto alzò le spalle. — Per mio padre... – borbottò, – non glielo dico...

Quando poi se ne fu andato, Nuto disse: — Io tutto capisco ma non un ragazzo che viene al mondo storpiato cosí... Che ci sta a fare?

 

* * *