Cesare Pavese – La Luna e i falò (Parte 2)

 

* * *

 

V.

 

Fa un sole su questi bricchi, un riverbero di grillaia e di tufi che mi ero dimenticato. Qui il caldo piú che scendere dal cielo esce da sotto – dalla terra, dal fondo tra le viti che sembra si sia mangiato ogni verde per andare tutto in tralcio. È un caldo che mi piace, sa un odore: ci sono dentro anch’io a quest’odore, ci sono dentro tante vendemmie e fienagioni e sfogliature, tanti sapori e tante voglie che non sapevo piú d’avere addosso. Cosí mi piace uscire dall’Angelo e tener d’occhio le campagne; quasi quasi vorrei non aver fatto la mia vita, poterla cambiare; dar ragione alle ciance di quelli che mi vedono passare e si chiedono se sono venuto a comprar l’uva o che cosa. Qui nel paese piú nessuno si ricorda di me, piú nessuno tiene conto che sono stato servitore e bastardo. Sanno che a Genova ho dei soldi. Magari c’è qualche ragazzo, servitore com’io sono stato, qualche donna che si annoia dietro le persiane chiuse, che pensa a me com’io pensavo alle collinette di Canelli, alla gente di laggiú, del mondo, che guadagna, se la gode, va lontano sul mare.

Di cascine, un po’ per scherzo un po’ sul serio, già diversi me n’hanno offerte. Io sto a sentire, con le mani dietro la schiena, non tutti sanno che me ne intendo – mi dicono dei gran raccolti di questi anni ma che adesso ci vorrebbe uno scasso, un muretto, un trapianto, e non possono farlo. — Dove sono questi raccolti? – gli dico, – questi profitti? Perché non li spendete nei beni?

— I concimi...

Io che i concimi li ho venduti all’ingrosso, taglio corto. Ma il discorso mi piace. E piú mi piace quando andiamo nei beni, quando traversiamo un’aia, visitiamo una stalla, beviamo un bicchiere.

Il giorno che tornai al casotto di Gaminella, conoscevo già il vecchio Valino. L’aveva fermato Nuto in piazza in mia presenza e gli aveva chiesto se mi conosceva. Un uomo secco e nero, con gli occhi da talpa, che mi guardò circospetto, e quando Nuto gli disse ridendo ch’ero uno che gli aveva mangiato del pane e bevuto del vino, restò lí senza decidersi, torbido. Allora gli chiesi se era lui che aveva tagliato i noccioli e se sopra la stalla c’era sempre quella spalliera di uva passera. Gli dicemmo chi ero e di dove venivo; Valino non cambiò quella faccia scura, disse soltanto che la terra della riva era magra e tutti gli anni la pioggia ne portava via un pezzo. Prima di andarsene mi guardò, guardò Nuto e gli disse: — Vieni una volta su di là. Voglio farti vedere quella tina che perde.

Poi Nuto mi aveva detto: — Tu in Gaminella non mangiavi tutti i giorni... – Non scherzava piú, adesso. – Eppure non vi toccava spartire. Adesso il casotto l’ha comprato la madama della Villa e viene a spartire i raccolti con la bilancia... Una che ha già due cascine e il negozio. Poi dicono i villani ci rubano, i villani sono gente perversa...

Da solo ero tornato su quella strada e pensavo alla vita che poteva aver fatto il Valino in tanti anni – sessanta? forse nemmeno – che lavorava da mezzadro. Da quante case era uscito, da quante terre, dopo averci dormito, mangiato, zappato col sole e col freddo, caricando i mobili su un carretto non suo, per delle strade dove non sarebbe ripassato. Sapevo ch’era vedovo, gli era morta la moglie nella cascina prima di questa e dei figli i piú vecchi erano morti in guerra – non gli restava che un ragazzo e delle donne. Che altro faceva in questo mondo?

Dalla valle del Belbo non era mai uscito. Senza volerlo mi fermai sul sentiero pensando che, se vent’anni prima non fossi scappato, quello era pure il mio destino. Eppure io per il mondo, lui per quelle colline, avevamo girato girato, senza mai poter dire: «Questi sono i miei beni. Su questa trave invecchierò. Morirò in questa stanza».

Arrivai sotto il fico, davanti all’aia, e rividi il sentiero tra i due rialti erbosi. Adesso ci avevano messo delle pietre per scalini. Il salto dal prato alla strada era come una volta – erba morta sotto il mucchio delle fascine, un cesto rotto, delle mele marce e schiacciate. Sentii il cane di sopra scorrere lungo il filo di ferro.

Quando sporsi la testa dagli scalini, il cane impazzí. Si buttò in piedi, ululava, si strozzava. Seguitai a salire, e vidi il portico, il tronco del fico, un rastrello appoggiato all’uscio – la stessa corda col nodo pendeva dal foro dell’uscio. La stessa macchia di verderame intorno alla spalliera sul muro. La stessa pianta di rosmarino sull’angolo della casa. E l’odore, l’odore della casa, della riva, di mele marce, d’erba secca e di rosmarino.

Su una ruota stesa per terra era seduto un ragazzo, in camicino e calzoni strappati, una sola bretella, e teneva una gamba divaricata, scostata in un modo innaturale. Era un gioco quello? Mi guardò sotto il sole, aveva in mano una pelle di coniglio secca, e chiudeva le palpebre magre per guadagnar tempo.

Io mi fermai, lui continuava a batter gli occhi; il cane urlava e strappava il filo. Il ragazzo era scalzo, aveva una crosta sotto l’occhio, le spalle ossute e non muoveva la gamba. D’improvviso mi ricordai quante volte avevo avuto i geloni, le croste sulle ginocchia, le labbra spaccate. Mi ricordai che mettevo gli zoccoli soltanto d’inverno. Mi ricordai come la mamma Virgilia strappava la pelle ai conigli dopo averli sventrati. Mossi la mano e feci un cenno.

Sull’uscio era comparsa una donna, due donne, sottane nere, una decrepita e storta, una piú giovane e ossuta, mi guardavano. Gridai che cercavo il Valino. Non c’era, era andato su per la riva.

La meno vecchia gridò al cane e prese il filo e lo tirò, che rantolava. Il ragazzo si alzò dalla ruota – si alzò a fatica, puntando la gamba per traverso, fu in piedi e strisciò verso il cane. Era zoppo, rachitico, vidi il ginocchio non piú grosso del suo braccio, si tirava il piede dietro come un peso. Avrà avuto dieci anni, e vederlo su quell’aia era come vedere me stesso. Al punto che diedi un’occhiata sotto il portico, dietro il fico, alle melighe, se comparissero Angiolina e Giulia. Chi sa dov’erano? Se in qualche luogo erano vive, dovevano avere l’età di quella donna.

Calmato il cane, non mi dissero niente e mi guardavano.

 

 

* * *  

 

VI.

 

Allora io dissi che, se il Valino tornava, lo aspettavo. Risposero insieme che delle volte tardava.

Delle due quella che aveva legato il cane – era scalza e cotta dal sole e aveva addirittura un po’ di pelo sulla bocca – mi guardava con gli occhi scuri e circospetti del Valino. Era la cognata, quella che adesso dormiva con lui; standogli insieme era venuta a somigliargli.

Entrai nell’aia (di nuovo il cane si avventò), dissi ch’io su quell’aia c’ero stato bambino. Chiesi se il pozzo era sempre là dietro. La vecchia, seduta adesso sulla soglia, borbottò inquieta; l’altra si chinò e raccolse il rastrello caduto davanti all’uscio, poi gridò al ragazzo di guardare dalla riva se vedeva il Pa. Allora dissi che non ce n’era bisogno, passavo là sotto e mi era venuta voglia di rivedere la casa dov’ero cresciuto, ma conoscevo tutti i beni, la riva fino al noce, e potevo girarli da solo, trovarci uno.

Poi chiesi: — E cos’ha questo ragazzo? è caduto su una zappa?

Le due donne guardarono da me a lui, che si mise a ridere – rideva senza far voce e serrò subito gli occhi. Conoscevo questo gioco anch’io.

Dissi: — Cos’hai? come ti chiami?

Mi rispose la magra cognata. Disse che il medico aveva guardato la gamba di Cinto quell’anno ch’era morta Mentina, quando stavano ancora all’Orto – Mentina era in letto che esclamava e il dottore il giorno prima che morisse le aveva detto che questo qui non aveva le ossa buone per colpa di lei. Mentina gli aveva risposto che gli altri figli ch’eran morti soldati erano sani, ma che questo era nato cosí, lei lo sapeva che quel cane arrabbiato che voleva morderla le avrebbe fatto perdere anche il latte. Il dottore l’aveva strapazzata, aveva detto che non era mica il latte, ma le fascine, andare scalza nella pioggia, mangiare ceci e polenta, portar ceste. Bisognava pensarci prima, aveva detto il dottore, ma adesso non c’era piú tempo. E Mentina aveva detto che intanto gli altri erano venuti sani, e l’indomani era morta.

Il ragazzo ci ascoltava appoggiato al muro, e mi accorsi che non era che ridesse – aveva le mascelle sporgenti e i denti radi e quella crosta sotto l’occhio – sembrava che ridesse, e stava invece attento.

Dissi alle donne: — Allora vado a cercare il Valino —. Volevo starmene solo. Ma le donne gridarono al ragazzo: — Muoviti. Va’ a vedere anche tu.

Cosí mi misi per il prato e costeggiai la vigna, che tra i filari adesso era a stoppia di grano, cotta dal sole. Per quanto dietro la vigna, invece dell’ombra nera dei noccioli, la costa fosse una meliga bassa, tanto che l’occhio ci spaziava, quella campagna era ben minuscola, un fazzoletto. Cinto mi zoppicava dietro e in un momento fummo al noce. Mi parve impossibile di averci tanto girato e giocato, di lí alla strada, di esser sceso nella riva a cercare le noci o le mele cadute, aver passato pomeriggi intieri con la capra e con le ragazze su quell’erba, avere aspettato nelle giornate d’inverno un po’ di sereno per poterci tornare – neanche se questo fosse stato un paese intiero, il mondo. Se di qui non fossi uscito per caso a tredici anni, quando Padrino era andato a stare a Cossano, ancor adesso farei la vita del Valino, o di Cinto.

Come avessimo potuto cavarci da mangiare, era un mistero. Allora rosicchiavamo delle mele, delle zucche, dei ceci. La Virgilia riusciva a sfamarci. Ma adesso capivo la faccia scura del Valino che lavorava lavorava e ancora doveva spartire. Se ne vedevano i frutti – quelle donne inferocite, quel ragazzo storpio.

Chiesi a Cinto se i noccioli li aveva ancora conosciuti. Piantato sul piede sano, mi guardò incredulo, e mi disse che in fondo alla riva ce n’era ancora qualche pianta. Voltandomi a parlare, avevo visto sopra le viti la donna nera che ci osservava dall’aia. Mi vergognai del mio vestito, della camicia, delle scarpe. Da quanto tempo non andavo piú scalzo? Per convincere Cinto che un tempo ero stato anch’io come lui, non bastava che gli parlassi cosí di Gaminella. Per lui Gaminella era il mondo e tutti gliene parlavano cosí. Che cosa avrei detto ai miei tempi se mi fosse comparso davanti un omone come me e io l’avessi accompagnato nei beni? Ebbi un momento l’illusione che a casa mi aspettassero le ragazze e la capra e che a loro avrei raccontato glorioso il grande fatto.

Adesso Cinto mi veniva dietro interessato. Lo portai fino in fondo alla vigna. Non riconobbi piú i filari; gli chiesi chi aveva fatto il trapianto. Lui cianciava, si dava importanza, mi disse che la madama della Villa era venuta solo ieri a raccogliere i pomodori. — Ve ne ha lasciati? — chiesi. — Noi li avevamo già raccolti, — mi disse.

Dov’eravamo, dietro la vigna, c’era ancora dell’erba, la conca fresca della capra, e la collina continuava sul nostro capo. Gli feci dire chi abitava nelle case lontane, gli raccontai chi ci stava una volta, quali cani avevano, gli dissi che allora eravamo tutti ragazzi. Lui mi ascoltava e mi diceva che qualcuno ce n’era ancora. Poi gli chiesi se c’era sempre quel nido dei fringuelli sull’albero che spuntava ai nostri piedi dalla riva. Gli chiesi se andava mai nel Belbo a pescare con la cesta.

Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale. Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo – eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell’odore, quel gusto, quel colore d’allora.

Gli feci dire se sapeva i paesi intorno. Se era mai stato a Canelli. C’era stato sul carro quando il Pa era andato a vendere l’uva da Gancia. E certi giorni traversavano Belbo coi ragazzi del Piola e andavano sulla ferrata a veder passare il treno.

Gli raccontai che ai miei tempi questa valle era piú grande, c’era gente che la girava in carrozza e gli uomini avevano la catena d’oro al gilè e le donne del paese, della Stazione, portavano il parasole. Gli raccontai che facevano delle feste – dei matrimoni, dei battesimi, delle Madonne – e venivano da lontano, dalla punta delle colline, venivano i suonatori, i cacciatori, i sindaci. C’erano delle case – palazzine, come quella del Nido sulla collina di Canelli – che avevano delle stanze dove stavano in quindici, in venti, come all’albergo dell’Angelo, e mangiavano, suonavano tutto il giorno. Anche noi ragazzi in quei giorni facevamo delle feste sulle aie, e giocavamo, d’estate, alla settimana; d’inverno, alla trottola sul ghiaccio. La settimana si faceva saltando su una gamba sola, come stava lui, su delle righe di sassolini senza toccare i sassolini. I cacciatori dopo la vendemmia giravano le colline, i boschi, andavano su da Gaminella, da San Grato, da Camo, tornavano infangati, morti, ma carichi di pernici, di lepri, di selvaggina. Noi dal casotto li vedevamo passare e poi fino a notte, nelle case del paese, si sentiva far festa, e nella palazzina del Nido laggiú – allora si vedeva, non c’erano quegli alberi – tutte le finestre facevano luce, sembrava il fuoco, e si vedevano passare le ombre degli invitati fino al mattino.

Cinto ascoltava a bocca aperta, con la sua crosta sotto l’occhio, seduto contro la sponda.

— Ero un ragazzo come te, – gli dissi, – e stavo qui con Padrino, avevamo una capra. Io la portavo in pastura. D’inverno quando non passavano piú i cacciatori era brutto, perché non si poteva neanche andare nella riva, tant’acqua e galaverna che c’era, e una volta – adesso non ci sono piú – da Gaminella scendevano i lupi che nei boschi non trovavano piú da mangiare, e la mattina vedevamo i loro passi sulla neve. Sembrano di cane ma sono piú profondi. Io dormivo nella stanza là dietro con le ragazze e sentivamo di notte il lupo lamentarsi che aveva freddo nella riva...

— Nella riva l’altr’anno c’era un morto, — disse Cinto.

Mi fermai. Chiesi che morto.

— Un tedesco, – mi disse. – Che l’avevano sepolto i partigiani in Gaminella. Era tutto scorticato...

— Cosí vicino alla strada? — dissi.

— No, veniva da lassú, nella riva. L’acqua l’ha portato in basso e il Pa l’ha trovato sotto il fango e le pietre…

 

* * *

 

VII.

 

Intanto dalla riva veniva lo schianto di una roncola contro il legno, e a ogni colpo Cinto batteva le ciglia.

— È il Pa, – disse, – è qui sotto.

Io gli chiesi perché prima teneva chiusi gli occhi mentre io lo guardavo e le donne parlavano. Subito li richiuse, d’istinto, e negò di averlo fatto. Mi misi a ridere e gli dissi che facevo anch’io questo gioco quand’ero ragazzo – cosí vedevo solamente le cose che volevo e quando poi riaprivo gli occhi mi divertivo a ritrovare le cose com’erano.

Allora scoprí i denti contento e disse che facevano cosí anche i conigli.

— Quel tedesco, – dissi, – sarà stato tutto mangiato dalle formiche.

Un urlo della donna dall’aia, che chiamava Cinto, voleva Cinto, malediceva Cinto, ci fece sorridere. Si sente spesso questa voce sulle colline.

— Non si capiva piú come l’avevano ammazzato, – disse lui. – È stato sottoterra due inverni...

Quando franammo tra le foglie grasse, i rovi e la menta del fondo, il Valino alzò appena la testa. Stava troncando con la roncola sul capitozzo i rami rossi d’un salice. Come sempre, mentre fuori era agosto, quaggiú faceva freddo, quasi scuro. Qui la riva una volta portava dell’acqua, che d’estate faceva pozza.

Gli chiesi dove metteva i salici a stagionare, quest’anno ch’era cosí asciutto. Lui si chinò a far su il fastello, poi cambiò idea. Rimase a guardarmi, rincalzando col piede i rami e attaccandosi dietro i calzoni la roncola. Aveva quei calzoni e quel cappello inzaccherati, quasi celesti, che si mettono per dare il verderame.

— C’è un’uva bella quest’anno, – gli dissi, – manca solo un po’ d’acqua.

— Qualcosa manca sempre, – disse il Valino. – Aspettavo Nuto per quella tina. Non viene?

Allora gli spiegai ch’ero passato per caso da Gaminella e avevo voluto rivedere la campagna. Non la conoscevo piú, tant’era stata lavorata. La vigna era nuova di tre anni, no? E in casa – gli chiesi – anche in casa ci avevano lavorato? Quando ci stavo io, c’era il camino che non tirava piú – l’avevano poi rotto quel muro?

Il Valino mi disse che in casa stavano le donne. Loro, ci devono pensare. Guardò su per la riva in mezzo alle foglioline delle albere. Disse che la campagna era come tutte le campagne, per farla fruttare ci sarebbero volute delle braccia che non c’erano piú.

Allora parlammo della guerra e dei morti. Dei figli non disse niente. Borbottò. Quando parlai dei partigiani e dei tedeschi, alzò le spalle. Disse che allora stava all’Orto, e aveva visto bruciare la casa del Ciora. Per un anno piú nessuno aveva fatto niente in campagna, e se tutti quegli uomini se ne fossero invece tornati a casa – i tedeschi a casa loro, i ragazzi sui beni – sarebbe stato un guadagno. Che facce, che gente – tanta gente forestiera non s’era mai vista, neanche sulle fiere di quand’era giovanotto.

Cinto stava a sentirci, a bocca aperta. Chi sa quanti, dissi, ce n’erano ancora sepolti nei boschi.

Il Valino mi guardò con la faccia scura – gli occhi torbidi, duri. — Ce n’è, – disse, – ce n’è. Basta aver tempo di cercarli —. Non mise disgusto nella voce, né pietà. Sembrava parlasse di andare a funghi, o a fascine. Si animò per un momento, poi disse: — Non hanno fruttato da vivi. Non fruttano da morti.

Ecco, pensai, Nuto gli darebbe dell’ignorante, del tapino, gli chiederebbe se il mondo dev’essere sempre com’era una volta. Nuto che aveva visto tanti paesi e sapeva le miserie di tutti qui intorno, Nuto non avrebbe mai chiesto se quella guerra era servita a qualcosa. Bisognava farla, era stato un destino cosí. Nuto l’ha molto quest’idea che una cosa che deve succedere interessa a tutti quanti, che il mondo è mal fatto e bisogna rifarlo.

Il Valino non mi disse se salivo con lui a bere un bicchiere. Raccolse il fastello dei salici e chiese a Cinto se era andato a far l’erba. Cinto, scostandosi, guardava a terra e non rispose. Allora il Valino fece un passo e con la mano libera menò un salice a frustata e Cinto saltò via e il Valino incespicò e si drizzò. Cinto, in fondo alla riva, adesso lo guardava.

Senza parlare, il vecchio s’incamminò per la costa, coi salici in braccio. Non si voltò nemmeno quando fu in cima. Mi parve d’essere un ragazzo venuto a giocare con Cinto, e che il vecchio avesse menato a lui non potendo prendersela con me. Io e Cinto ci guardammo ridendo, senza parlare.

Scendemmo la riva sotto la volta fredda degli alberi, ma bastava passare nelle pozze scoperte, al sole, per sentire l’afa e il sudore. Io studiavo la parete di tufo, quella di fronte al nostro prato, che sosteneva la vigna del Morone. Si vedevano in cima, sopra i rovi, sporgere le prime viti chiare e un bell’albero di pesco con certe foglie già rosse come quello che c’era ai miei tempi e qualche pesca cadeva allora nella riva e ci sembrava piú buona delle nostre. Queste piante di mele, di pesche, che d’estate hanno foglie rosse o gialle, mi mettono gola ancora adesso, perché la foglia sembra un frutto maturo e uno si fa sotto, felice. Per me tutte le piante dovrebbero essere a frutto; nella vigna è cosí.

Con Cinto parlavamo dei giocatori di pallone, poi di quelli di carte; e arrivammo alla strada, sotto il muretto della riva, in mezzo alle gaggie. Cinto aveva già visto un mazzo di carte in mano a uno che teneva banco in piazza, e mi disse che aveva a casa un due di picche e un re di cuori che qualcuno aveva perduto sullo stradone. Erano un po’ sporche ma buone e se avesse poi trovato anche le altre potevano servire. Io gli dissi che c’era di quelli che giocavano per vivere e si giocavano le case e le terre. Ero stato in un paese, gli dissi, dove si giocava con la pila dei marenghi d’oro sul tavolo e la pistola nel gilè. E anche da noi una volta, quand’ero ragazzo, i padroni delle cascine, quando avevano venduta l’uva o il grano, attaccavano il cavallo e partivano sul fresco, andavano a Nizza, a Acqui, coi sacchetti di marenghi e giocavano tutta la notte, giocavano i marenghi, poi i boschi, poi i prati, poi la cascina, e il mattino dopo li trovavano morti sul letto dell’osteria, sotto il quadro della Madonna e il ramulivo. Oppure partivano sul biroccino e piú nessuno ne sapeva niente. Qualcuno si giocava anche la moglie, e cosí i bambini restavano soli, li cacciavano di casa, e sono questi che si chiamano i bastardi.

— Il figlio del Maurino, – disse Cinto, – è un bastardo.

— C’è chi li raccoglie, – gli dissi, – è sempre la povera gente che raccoglie i bastardi. Si vede che il Maurino aveva bisogno di un ragazzo...

— Se glielo dicono, s’arrabbia, — disse Cinto.

— Non devi dirglielo. Che colpa hai tu se tuo padre ti dà via? Basta che hai voglia di lavorare. Ho conosciuto dei bastardi che hanno comprato delle cascine.

Eravamo sbucati dalla riva e Cinto, trottandomi avanti, s’era seduto sul muretto. Dietro le albere dall’altra parte della strada c’era il Belbo. Era qui che uscivamo a giocare, dopo che la capra ci aveva portati in giro tutto il pomeriggio per le coste e le rive. I sassolini della strada erano ancora gli stessi, e i fusti freschi delle albere avevano odore d’acqua corrente.

— Non vai a fare l’erba per i conigli? — dissi.

Cinto mi disse che ci andava. Allora m’incamminai e fino alla svolta mi sentii quegli occhi addosso dal canneto.

 

* * *

 

VIII.

 

Al casotto di Gaminella decisi di tornare soltanto con Nuto, perché il Valino mi lasciasse entrare in casa. Ma per Nuto questa strada è fuori mano. Io invece ci passavo sovente e capitava che Cinto mi aspettava sul sentiero o sbucava dalle canne. Si appoggiava al muretto con la gamba divaricata e mi lasciava discorrere.

Ma dopo quei primi giorni, finita la festa e il torneo di pallone, l’albergo dell’Angelo si rifece tranquillo e quando, nel brusio delle mosche, prendevo il caffè alla finestra guardando la piazza vuota, mi trovai come un sindaco che guarda il paese dal balcone del municipio. Non l’avrei detto, da ragazzo. Lontano da casa si lavora per forza, si fa fortuna senza volerlo – far fortuna vuol dire appunto essere andato lontano e tornare cosí, arricchito, grand’e grosso, libero. Da ragazzo non lo sapevo ancora, eppure avevo sempre l’occhio alla strada, ai passanti, alle ville di Canelli, alle colline in fondo al cielo. È un destino cosí, dice Nuto – che in confronto con me non si è mosso. Lui non è andato per il mondo, non ha fatto fortuna. Poteva succedergli come succede in questa valle a tanti – di venir su come una pianta, d’invecchiare come una donna o un caprone, senza sapere che cosa succede di là dalla Bormida, senza uscire dal giro della casa, della vendemmia, delle fiere. Ma anche a lui che non si è mosso è toccato qualcosa, un destino – quella sua idea che le cose bisogna capirle, aggiustarle, che il mondo è mal fatto e che a tutti interessa cambiarlo.

Capivo che da ragazzo, anche quando facevo correre la capra, quando d’inverno rompevo con rabbia le fascine mettendoci il piede sopra, o giocavo, chiudevo gli occhi per provare se riaprendoli la collina era scomparsa – anche allora mi preparavo al mio destino, a vivere senza una casa, a sperare che di là dalle colline ci fosse un paese piú bello e piú ricco. Questa stanza dell’Angelo – allora non c’ero mai stato – mi pareva di aver sempre saputo che un signore, un uomo con le tasche piene di marenghi, un padrone di cascine, quando partiva sul biroccio per vedere il mondo, una bella mattina si trovava in una stanza cosí, si lavava le mani nel catino bianco, scriveva una lettera sul vecchio tavolo lucido, una lettera che andava in città, andava lontano, e la leggevano dei cacciatori, dei sindaci, delle signore con l’ombrellino. Ed ecco che adesso succedeva. La mattina prendevo il caffè e scrivevo delle lettere a Genova, in America, maneggiavo dei soldi, mantenevo della gente. Forse fra un mese sarei di nuovo stato in mare, a correr dietro alle mie lettere.

Il caffè lo presi un giorno col Cavaliere, sotto, davanti alla piazza scottante. Il Cavaliere era il figlio del vecchio Cavaliere, che ai miei tempi era il padrone delle terre del Castello e di diversi mulini e aveva perfino gettato una diga nel Belbo quand’io ancora dovevo nascere. Passava qualche volta sullo stradone nella carrozza a tiro doppio guidata dal servitore. Avevano una villetta in paese, con un giardino cintato e piante strane che nessuno sapeva il loro nome. Le persiane della villa erano sempre chiuse quand’io d’inverno correvo a scuola e mi fermavo davanti al cancello.

Adesso il Vecchio era morto, e il Cavaliere era un piccolo avvocato calvo che non faceva l’avvocato: le terre, i cavalli, i mulini, se li era consumati da scapolo in città; la gran famiglia del Castello era scomparsa; gli era rimasta una piccola vigna, degli abiti frusti, e girava il paese con un bastone dal pomo d’argento. Con me attaccò discorso civilmente; sapeva di dove venivo; mi chiese se ero stato anche in Francia, e beveva il caffè scostando il mignolo e piegandosi avanti.

Si soffermava tutti i giorni davanti all’albergo e discorreva con gli altri avventori. Sapeva molte cose, piú cose dei giovani, del dottore e di me, ma erano cose che non quadravano con la vita che faceva adesso – bastava lasciarlo dire e si capiva che il Vecchio era morto a tempo. Mi venne in mente ch’era un po’ come quel giardino della villa, pieno di palme, di canne esotiche, di fiori con l’etichetta. A modo suo anche il Cavaliere era scappato dal paese, era andato per il mondo, ma non aveva avuto fortuna. I parenti l’avevano abbandonato, la moglie (una contessa di Torino) era morta, il figlio, l’unico figlio, il futuro Cavaliere, s’era ammazzato per un pasticcio di donne e di gioco prima ancora di andar militare. Eppure questo vecchio, questo tapino che dormiva in un tinello coi contadini della sua ultima vigna, era sempre cortese, sempre in ordine, sempre signore, e incontrandomi ogni volta si toglieva il cappello.

Dalla piazza si vedeva la collinetta dove aveva i suoi beni, dietro il tetto del municipio, una vigna mal tenuta, piena d’erba, e sopra, contro il cielo, un ciuffo di pini e di canne. Nel pomeriggio il gruppo di sfaccendati che prendevano il caffè, lo burlavano sovente su quei suoi mezzadri, che erano i padroni di mezzo San Grato e gli stavano in casa soltanto per la comodità di esser vicino al paese ma neanche si ricordavano di zappargli la vigna. Ma lui, convinto, rispondeva che sapevano loro, i mezzadri, di che cosa ha bisogno una vigna e che del resto c’era stato un tempo che i signori, i padroni di tenuta, lasciavano in gerbido una parte dei beni per andarci a caccia, o anche per capriccio.

Tutti ridevano all’idea che il Cavaliere andasse a caccia, e qualcuno gli disse che avrebbe fatto meglio a piantarci dei ceci.

— Ho piantato degli alberi, — disse lui con uno scatto e un calore improvvisi, e gli tremò la voce. Cosí civile com’era, non sapeva difendersi, e allora entrai anch’io a dir qualcosa, per cambiare discorso. Il discorso cambiò, ma si vede che il Vecchio non era morto del tutto, perché quel tapino mi aveva capito. Quando mi alzai mi pregò di una parola e ci allontanammo per la piazza sotto gli occhi degli altri. Mi raccontò ch’era vecchio e troppo solo, casa sua non era un luogo da riceverci nessuno, tutt’altro, ma se salivo a fargli una visita, con mio comodo, sarebbe stato ben lieto. Sapeva ch’ero stato da altri a veder terre; dunque, se avevo un momento... Di nuovo mi sbagliai: sta’ a vedere, mi dissi, che anche questo vuol vendere. Gli risposi che non ero in paese per fare affari. — No no, – disse subito, – non parlo di questo. Una semplice visita... Voglio mostrarle, se permette, quegli alberi...

Ci andai subito, per levargli il disturbo di prepararmi l’accoglienza, e per la stradetta sopra i tetti scuri, sui cortili delle case, mi raccontò che per molte ragioni non poteva vendere la vigna – perch’era l’ultima terra che portasse il suo nome, perché altrimenti sarebbe finito in casa d’altri, perché ai mezzadri conveniva cosí, perché tanto era solo...

— Lei, – mi disse, – non sa che cos’è vivere senza un pezzo di terra in questi paesi. Lei, dove ha i suoi morti?

Gli dissi che non lo sapevo. Tacque un momento, si interessò, si stupí, scosse il capo.

— Mi rendo conto, – disse piano. – È la vita.

Lui purtroppo aveva un morto recente al cimitero del paese. Da dodici anni e gli sembrava ieri. Non un morto com’è umano averne, un morto che ci si rassegna, che ci si pensa con fiducia. — Ho fatto molti stupidi errori, – mi disse, – se ne fanno nella vita. I veri acciacchi dell’età sono i rimorsi. Ma una cosa non mi perdono. Quel ragazzo...

Eravamo arrivati al gomito della strada, sotto le canne. Si fermò e balbettò: — Lei sa com’è morto?

Feci cenno di sí. Parlava con le mani strette al pomo del bastone. — Ho piantato questi alberi, — disse. Dietro le canne si vedeva un pino. — Ho voluto che qui in cima alla collina la terra fosse sua, come piaceva a lui, libera e selvatica come il parco dov’è stato ragazzo...

Era un’idea. Quella macchia di canne e, dietro, i pini rossastri e l’erba sotto, rigogliosa, mi ricordavano la conca in cima alla vigna di Gaminella. Ma qui c’era di bello ch’era la punta della collina e tutto finiva nel vuoto.

— In tutte le campagne, – gli dissi, – ci vorrebbe un pezzo di terra cosí, lasciato incolto... Ma la vigna lavorarla, — dissi.

Ai nostri piedi si vedevano quei quattro filari disgraziati. Il Cavaliere fece una smorfia spiritosa e scosse il capo. — Sono vecchio, – disse. – Villani.

 

* * *