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URSS. L’impero del lavoro forzato  >  6. La mistica del lavoro forzato.

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6. La mistica del lavoro forzato

 

 

Nelle immense officine, ogni tanto si vede una bandierina rossa attaccata a qualche macchina. Vuol dire che l’uomo addetto a quella macchina è un “udarnik”.
Gli “udarnik” sono i componenti delle cosiddette “brigate d’assalto” del lavoro: i trascinatori, gli energetici e gli energumeni. Ogni opificio ha la sua brigata. L’ “udarnik” è il prodotto più puro dell’educazione comunista, il privilegiato dell’eguaglianza, l’aristocratico della collettività. A lui si aprono la scuola professionali e, gratuitamente, le porte dei teatri.

Davanti alla macchina decorata dalla fiammetta vermiglia egli lavora, fumando la sigaretta, con in testa quel berrettone da ciclista diventato emblematico dopo che lo adottò Lenin. L’udarnik è sempre molto giovane. Chi ricorda o conosce l’esistenza di altre condizioni di vita sembra meno soggetto ad entusiasmi forsennati per l’esistenza nell’URSS. L’occhio vivace e intelligente, l’aria bellicosa e spavalda, l’udarnik ha soprattutto un’espressione decisamente priva di amenità.
Non si sa perché, ma è un fatto che il bolscevismo mantiene i suoi fedeli in un pessimo umore permanente e contagioso. Nella visione della felicità comunista ci deve essere qualche cosa di incompatibile con la gaiezza. Tutta questa gente ha l’aria tragica. Il popolo russo, non è mai stato particolarmente allegro, ma aveva esplosioni festose ed ilarità infantili. Adesso non più. C’è una tristezza senza soluzioni di continuità su tutto il territorio sovietico. Non vi abbiamo ancora visto una persone ridere. È anche vero che non vi abbiamo neppure trovato alcuna ragione per ridere.
L’istituzione degli “udarniki” è di una importanza capitale nella organizzazione di quella gigantesca e perfetta propaganda operaia per il lavoro sulla quale si appoggia l’industrializzazione sovietica, e che spinge le masse ad uno sforzo strenuo ed incessante. L’ “udarnik” è un po’ il suo cane da pastore la cui sola presenza fa trotterellare anche le pecore più ritardatarie.
L’inefficienza operaia si presentava come il più grave ostacolo alla realizzazione dei “piani” vertiginosi. I russi sono operai discreti, forse, ma certamente estatici. Non hanno mai considerato il lavoro come una cosa urgente, essenziale e improrogabile. Ci vogliono vari russi per fare il lavoro di un europeo. Bisogna dunque creare nelle masse uno stato di esaltazione produttiva, senza altro compenso che la speranza.
Il sentimento proletario è stato così abilmente forgiato nell’U.R.S.S. da poterlo dirigere a fascio, come il raggio di un proiettore, su qualsiasi obiettivo.
Il russo è rimasto un mistico impulsivo. Una volta cancellate dall’anima dei giovani la fede cristiana, l’influenza della famiglia, la tradizione, e persino la poesia dell’amore, come si cancellano delle cose scritte sopra una lavagna, si è creato un vuoto avido di devozione e di passione, e tutto quello che vi si è messo ha assunto profondità sacre, valori dogmatici, ardori di fanatismo. Il comunismo è diventata una religione bizzarra, feroce, esclusiva ed intransigente, al di fuori della quale tutto è eresia e dannazione. E in materia di religione i russi non scherzano, loro che due secoli fa misero a ferro e fuoco mezzo paese per decidere se la benedizione sia valida impartita con due dita o con tre.
I due più grandi movimenti della esaltazione umana sono stati messi sapientemente in opera: la fede e la guerra. L’industrializzazione dell’URSS è presentata come una battaglia per la salvezza e la supremazia della Russia, che nemici implacabili circondano e minacciano. L’odio e il patriottismo sono in fondo all’entusiasmo bolscevico, benché abbiano preso i nomi di “fraternità” e di “Internazionale”.

“Diventeremo il Paese dell’industria – ha scritto Stalin – ed i signori capitalisti, che vantano la loro civiltà, tenteranno di raggiungerci”.
Sono le stesse cose che, con altre parole, Pietro il Grande gridò ai suoi boiardi brindando alla presa di Riga: “Io sento che la scienza – egli disse – abbandonerà le sue dimore di Inghilterra, di Francia e di Germania e per alcuni secoli prenderà stanza da noi”. Ma la scienza rimase nelle sue vecchie dimore.
C’è sempre l’idea del predominio. Sullo stemma sovietico la Terra intera con i suoi continenti ed i suoi oceani è raffigurata sotto la falce ed al martello, come una cuscino che porti i nuovi emblemi di una sovranità mondiale.
Un ansito di conquista è soffiato sulle folle lavoratrici perché si sentano in combattimento. Le varie “piatiletke” assumono aspetti di assalti successivi. È con il linguaggio dei bollettini di guerra che si annunziano le mete raggiunte dall’avanzata industriale. I ritratti degli operai più alacri sono esposti al pubblico: citazioni all’ordine del giorno. Le notizie dal fronte interessano tutti, e, come sempre in tempo di guerra, tutti ne discutono e si sentono strateghi.  
Si capisce che, se qualche cosa va male, la gente indignata attribuisca il guaio a tradimenti internazionali, e la “Ghepeù” trovi opportuno presentare, con pezze di appoggio, dei capri espiatori.
Nella rottura di un dinamo, o nell’insufficienza di un impianto, o nella improduttività di una azienda, c’è la mano dell’Europa. Misfatti del capitalismo.
Il proletariato russo immagina le altre nazioni contorte dagli spasimi dell’invidia e della paura, intente nell’ombra ai più neri complotti contro al bolscevismo possente e trionfante.
Bisogna che l’operaio sovietico senta così, perché la sua ossessione è una forza costruttiva. Se egli si considerasse in pace col mondo allargherebbe i tempi. In questa atmosfera drammatica, nella oppressione di una propaganda magistrale e spudorata che non lascia penetrare niente di estraneo ai suoi fini, tra tanto luridume di vesti e severità di visi macilenti, in questo mondo cupo, tetro, saturo di fanatismi, di paure, di manie, di sporcizia, di disperazioni e di dissimulazioni, vi è qualche cosa di terribilmente grandioso e angoscioso, allucinante e imponente come un mondo medioevale elettrificato e motorizzato, folle di terrori, di sogni, di illusioni e di errori che aspetti il millennio.
Quanto è profonda la crosta di incandescenza comunista su questa grande massa torpe ed enigmatica? Nulla pareva in Russia più profondo e indistruttibile della devozione ortodossa e del timore di Dio, che apparentemente si sono spenti senza eccessive esitazioni al soffio della rivoluzione, come candele accese di un santuario invaso dall’uragano. E duravano da dieci secoli.
L’entusiasmo bolscevico è nei più giovani sincero, vivo, dimostrativo, evidente. Nei meno giovani ha delle apparenze assai più sedate. La grande maggioranza del popolo è disciplinata, docile, attiva, ma profondamente inespressiva. Fa pensare ad una truppa schierata, pronta ed impassibile, della quale sia difficile dire quanto ami il suo colonnello.

Molto del fragore comunistico sotto al quale le masse sono tenute è il prodotto di una esagerazione voluta, calcolata per spronare moltitudini dall’indole normalmente placida, dal carattere freddo, dalla mentalità lenta, venute dalla campagna e propense ad un calmo disinteresse.
L’eccitazione bolscevica è la “banderilla de fuego” inferta nella pelle di questo toro mansueto, che noi vediamo lanciare scintille balzando feroce e muggente nell’arena, ma che senza i razzi cercherebbe forse la stalla.
E vi è anche in questa frenesia, una certa dose di ostentazione, di posa, e di prudenza. L’instancabilità è di moda adesso in Russia, come gli stracci. Ragazze del popolo vanno in giro in tuta, sporche di fango fino agli occhi, un fazzoletto rosso intorno alla testa, l’aria terribilmente lavoratrice. I “volontari del lavoro” gremiscono, nei giorni del loro riposo dalla loro opera abituale, gli sterri dei cantieri della ferrovia metropolitana in costruzione, formicai umani su cumuli di sabbia; ma i “volontari” gettano di tanto in tanto una piccola palata un poco più in là, come per un rito, e aspettano il momento di andarsene dopo questo compunto gesto di adesione. Il giorno dopo la stampa li chiama titani.
Ma qualunque sia l’estensione del parossismo religioso e bellico da cui scaturisce la paradossale “mistica del lavoro forzato”, esso non può essere perpetuo. L’esasperazione, come la febbre, non è una condizione permanente. La guerra eterna è inconcepibile. Non mancano vaghi sintomi di stanchezza, che si manifestano talvolta in storielle satiriche circolanti segretamente e sussurrate spesso, con facce impenetrabili da giocatori di “poker”, da bolscevichi che nell’intimità lasciano il fuoco sacro in anticamera insieme alla pelliccia:
“Sapete, non ci sarà un Terzo Piano Quinquennale”.
“E perché?”.
“Perché il codice sovietico non ammette condanne superiori ai dieci anni. Dopo i dieci anni è la morte”.
Una parte imprecisabile dello slancio comunistico del proletariato russo somiglia al movimento di quelle immense masse d’alberi tagliati, per farne carta, che le fiumane della Carelia trascinano: una gesticolazione che è inerzia e un impeto che è abbandono. Ma una cosa è certa, ed è che una parte del popolo russo uscirà profondamente modificata, non nell’indole ma nella mentalità e nelle abitudini, dall’attuale stadio di enfasi e di schiavitù. La macchina è entrata profondamente nella sua vita, alterandone i ritmi, gli aspetti, le possibilità. Con tutti i suoi errori, i suoi sperperi, le sue follie e le sue crudeltà, l’industrializzazione ad oltranza è una enorme iniezione di acciaio nel gran corpo silvano dello sterminato impero.
Ma la parte del popolo russo così influenzata è quella cittadina, l’operaia, l’agglomerata, quella che si vede e si avvicina visitando l’URSS.
Sarebbe un grave errore generalizzare.  

 

Gli “udarniki” sono operai esemplari – dicono i bolscevichi – scelti per la loro efficienza e la loro diligenza. Le maestranze sono invece di opinione che essi siano scelti per ragioni politiche, visto che debbono essere figli di proletari, atei, e riscuotere la fiducia del partito comunista. Sono loro che, quando viene l’ordine di fare una dimostrazione, prendono le bandiere rosse ed emergono dall’officina. Squadre di “udarniki” armati furono spedite a “liquidare” i “kulak” nel momento in cui i soldati esitarono a sparare. L’ “udarnik” mantiene alta la temperatura rivoluzionaria dell’officina. È una scintilla della “banderilla de fuego”.
Strana vita è quella dell’opificio sovietico, un miscuglio di laboratorio, di caserma, di scuola, di comizio. Da ogni parte si leggono massime, consigli, regole, generalmente scritti in grandi caratteri bianchi su strisce di stoffa rossa tese ovunque
sulle pareti od attraverso le gallerie. “Tovarici!” (Compagni) gridano dei manifesti con lettere alte un metro. L’esistenza del lavoratore trascorre in una ridda di frasi che lo circonda turbinosamente come la galoppata delle pellirosse intorno al prigioniero. Nemmeno se è analfabeta sfugge, per via della radio, e se nella casa gremita non c’è spazio per vivere, c’è tuttavia un altoparlante gratuito, ammaccato ma instancabile e collettivo.  È straordinario lo sviluppo che può prendere la radio nella propaganda a pressione in un popolo largamente analfabeta.
Negli atri, per le scale, al refettorio – dove i superiori mangiano in un reparto separato – per tutto è la galoppata rossa, la fiumana delle scritte che insegnano, ammaestrano, ordinano, incitano, condannano, proclamano, informano, ingiungono, esaltano.
Il giornale murale edito dal Comitato di fabbrica, per fortuna in un solo esemplare, annunzia i nomi dei solerti e degli infingardi della quindicina (con fotografie) e critica gli uffici tecnici (con caricature). Fasci di bandiere rosse coperte di scritture circondano i ritratti di Marx, di Lenin e di Stalin negli angoli delle icone, dove una volta erano le immagini dei santi. Parole, parole, una nevicata incessante di parole cade sula Russia malinconica.
Ed è strano come queste immense officine appena nate abbiano già l’aria stanca, logora,
trascurata, sudicia, delle cose trascurate e decrepite. Tutto vi pare di seconda mano. Si è costruito con tanta fretta, con materiali così poveri, e con metodi talmente sommari, che tutte le superfici a contatto d’uso si deteriorano, si screpolano, si fendono. Si è sacrificato ogni cosa all’essenziale. È giusto. Quello che non è indispensabile può essere benissimo sgangherato. Sembra la massima del regime sovietico. Ma la rovina più grande è portata dalla ignoranza e dalla indolente trasandatezza di maestranze miserabili e ineducate.
Fuori dalle gallerie delle macchine, scalini che si sgretolano, poggiamano di legno neri, unti di sporcizia, intoccabili, corridoi patinati di grasso all’altezza delle persone, pavimenti primitivi costellati di sputi, stipiti sconnessi, una trasandatezza, un logoramento, una puzza, un’incuria che sorprendono. La degradazione e l’avvilimento degli edifici, anche nuovissimi, offrono forse l’aspetto più immediato e desolante della indigenza russa.
Ecco, è l’ora della sosta meridiana. I macchinari si fermano, il frastuono si quieta. Un appello si leva: “Tovarici!”. Sono sorti qua e là degli oratori. In piedi dietro a delle cattedre, fra le macchine, dei capi-reparto tengono alle maestranze delle conferenze.
Docili come scolari, gli operai si aggruppano intorno alla cattedra e stanno immobili fissando il maestro con un’aria di diligente e profondo disinteresse. È difficile capire se ascoltino. Il loro sguardo è vuoto. Le donne, tipi di giovani contadine delle provincie meridionali, tozze, piccole, dal viso tondo e acceso, gli zigomi prominenti, il naso a pallottola, gli occhi asiatici, la blusa e i calzoni maschili, la testa avvolta nel fazzoletto rosso, si tengono alla periferia della classe,
a coppie, con le braccia nude gettate sulle spalle l’una dell’altra, fianco contro fianco, e sono francamente distratte.
Gli oratori parlano della razionalizzazione e di altri argomenti tecnici atti ad indurre gli operai ad una spontanea moltiplicazione degli sforzi.
Sorprende la statura di questi gruppi. La corporatura russa era una volta famosa per il suo eccesso. Ma pare che il moscovita abbia perduto l’abitudine di essere un gigante biondo. Si è accorciato di un palmo. Le nuove generazioni appaiono generalmente mingherline e con una singolare maggioranza di bruni.
E con il gigante è quasi scomparso un altro tipo che era comunissimo in Russia, paese della longevità: l’uomo anziano.
L’individuo che abbia fiorito nell’ante-guerra è rarissimo. Dove sono andati a finire i canuti ed i grigi? Quelli che non erano proletari non hanno potuto avere la tessera del pane e sono morti di fame, altri sono stati massacrati, il resto è scappato all’estero. Ma qualcuno è rimasto, sfuggito alla morte, inebetito, vivendo di segrete elemosine.
Ce n’è capitato uno l’altra sera di questi superstiti della fame, uno spettro tremolante che ad un angolo della Arbat Uliza, riconoscendoci per stranieri dalla sontuosità del nostro abbigliamento, ci ha chiesto sottovoce se eravamo francesi.
La notizia che eravamo italiani è sembrato deluderlo amaramente.
Scuotendo la testa coperta da un enorme e consunto colbacco di pelo, senza aggiungere parola si è allontanato nel buio.

 

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