Luigi Barzini – URSS. L’impero del lavoro forzato > 4. Aspetti della capitale rossa
* * *
Gli edifici di Mosca hanno smesso completamente l’abitudine di pulirsi,
come la regina Isabella smise quella di mutarsi la camicia. Con
le facciate macchiate di sgocciolature di grondaie rotte,
gl’intonachi scrostati, le balaustre sconnesse, le colonne
lebbrose, le corti ingombre di rottami e d’immondizie, molte
costruzioni che conferivano un aspetto di vistosa opulenza alle
massime arterie della città, non sono più che schieramenti di
scolorite e monumentali indigenze.
L’antica capitale degli zar aveva una sua
pesante bellezza, gonfia, placida, festosa e patriarcale, della
quale nemmeno il ricordo è rimasto sotto la veste di miseria che
copre le case come gli uomini. Mosca sembra diventata un immenso
asilo di poveri. Certe architetture che ostentano diverse grazie
deteriorate, fanno pensare a quei vestiti laceri e sporchi ma di
buon taglio che denunziano un passato di prosperità nel
mendicante che li indossa.
Una grandissima parte delle abitazioni
moscovite è gremita di inquilini dall’aspetto zingaresco,
ammassati e mescolati come la folla di un bivacco.
Fu fra il 1919 ed il 1921 che le residenze cittadine, senza
eccezione, si resero vacanti per la fuga o il massacro dei loro abitanti, ed esse offrono da
allora un alloggio alle moltitudini nuove, affluite dalla
sconfinata campagna per godere i privilegi del proletariato. Sei
o settecentomila cittadini scomparvero, e il loro posto fu
occupato da più di due milioni e mezzo di immigrati. Gli abitanti brulicano in ogni stabile fra labirinti
di tramezzi, alla densità di una persona ogni cinque metri
quadrati di pavimento. È presso a poco lo spazio necessario per
sdraiarsi. Al popolo è stata così concessa, per viverci, la
stessa superficie che ci vorrebbe per seppellirlo.
Naturalmente, il comunismo non essendo affatto
livellatore, vi sono varie categorie di persone che godono di
maggiori ampiezze domiciliari. Gli attori, i cantanti, i ballerini
(e soprattutto le ballerine), che possono raggiungere i più alti
stipendi, che comprano oggetti d’arte, e che formano la vera
aristocrazia sociale dell’U.R.S.S., arrivano al godimento di
piccoli appartamenti personali, come gli alti funzionari
sovietici, i tecnici stranieri, i corrispondenti di giornali
esteri autorizzati. I turisti internazionali, che l’agenzia di
Stato “Inturist” raccoglie, guida, sorveglia e propaganda, sono
ospitati nelle spaziosità confortevoli di alberghi speciali,
poiché pagano in oro, e l’oro è in Russia oggetto dei più grandi
onori e della più cordiale accoglienza. Ma la deficienza di spazio
rimane il problema urbano più assillante, nuovo e paradossale di
questo singolare paese, il quale è fatto, si può dire, di solo
spazio, con ventun milioni di chilometri quadrati di superficie e
soli sette abitanti per chilometro.
Per aumentare i vani abitabili, alcuni edifici
sono stati elevati con dei piani addizionali. Al di sopra degli
antichi cornicioni sorgono rozze costruzioni, specie di baracche
fatte di mattoni, grossi cubi nudi irti di tubi di stufa, ed il
casamento che li sostiene, antiquato e dignitoso, ha l’aria
rassegnata e stanca di una vecchia signora costretta a portare
sulla testa della casse da imballaggio. Per tutte le finestre
polverose, grigie come occhi con la cateratta, sulle quali le
rotture di vetri sono turate con stracci o con giornali. La
maggior parte dei negozi è vuota, con delle tele di ragno in
vetrina e le porte sprangate con le tavole. Le rare botteghe in
esercizio sono statali e mascherano la penuria di merci
adornando le loro mostre con strisce di carta rossa tese in
capricciose e raggianti simmetrie. Sembrano altarini di famiglia
con al centro, santificata, una scatola di qualche prodotto
sovietico.
Si cammina nel viscidume fangoso di neve sporca in fusione, fra
pozze d’acqua nerastra che si spande a getti al passaggio delle
automobili. I basamenti delle case sono incrostati di fango. Vi
è qualche cosa di sinistro, di opprimente, di angoscioso in
questo paesaggio di squallore, animato da gente che trotta senza parola e senza sorrisi. Un effetto
del rinnovamento bolscevico è che nulla ha più l’aria nuova. Lo
scoloramento della decrepitezza e del decadimento è sulle
muraglie, sulle cose, sui veicoli pubblici, su questi tram
fangosi che passano oscillando con fragore di lamiere sconnesse,
sugli indumenti della folla.
Pare che l’industria bolscevica non si
arrivata ancora alle vernici. È evidente che tutte le cose
verniciabili che si vedono ricevettero l’ultima mano all’epoca
dello zar. Sulle porte, le finestre, gli stipiti, le colonne
delle lampade, non c’è che la patina del tempo. Anche nelle
costruzioni recenti, le parti verniciate sembrano vestiti di
ruvidi e smorti surrogati. Nessun colore fiorisce più in questo
mondo cinereo, salvo il rosso che, sotto forma di strisce di
stoffa coperte di massime comuniste, di bandiere e banderuole
esposte un po’ per tutto, di fazzoletti avvolti sulla testa di
operaie, mentre nell’universale grigiore delle vampe perentorie,
ufficiose ed esclusive. Gli altri colori dell’iride non osano
mostrarsi, probabilmente a causa delle loro inammissibili
tendenze politiche.
Quelle miriadi di insegne clamorose che sporgevano dai negozi,
perpetuando l’uso medioevale di raffigurare in ingenue pitture
gli oggetti offerti in vendita, e che davano alle strade russe
un aspetto così gaio, variegato e pittoresco, sono scomparse. Il
Governo è un bottegaio austero: non ha concorrenti e del resto
non ha nemmeno molta roba da vendere, per ora.
Di tanto in tanto, dietro a delle
cancellate rugginose, uno scapigliamento di sterpaglie è quello
che rimane di qualche antico giardino. Il disgelo forma dei
pantani nei cortili, e gli inquilini li attraversano su delle
tavole, a passi cauti e con gesti da equilibristi. Quando ci si
affaccia ad una porta, si respira un tanfo caldo,
caratteristico, indimenticabile. È un sentore tipico, greve ed
oleoso, di stallatico umano, l’emanazione di masse non lavate
(il sapone è preziosissimo e l’acqua insufficiente), di cavolo
cotto, di pane acido, di fermentazioni imprecisabili. La Russia
bolscevica manda odori inconfondibili che sono l’alito di tutte
le miserie. Fluttuano nell’aria ovunque della gente si aduni.
Anche al teatro.
Nella monotonia della strada,
avviene talvolta una improvvisa irruzione di monelli che si
lanciano gridi di richiamo, correndo, pieni di selvaggia
gaiezza.
Sono i “senza famiglia”, gli abbandonati, i “passerotti umani”.
Sorgono all’improvviso, scompaiono all’improvviso, a piccoli
stormi. L’avvicinarsi di una guardia li fa disperdere, come una
selvaggina cacciata nella mobile foresta delle gambe della
folla.
Non hanno affatto l’aria di soffrire. La faccia arrossata dal
freddo ma piena e pronta a ridere, l’occhio furbo, il piede
lesto, la voce lieta, essi sono i soli esseri umani rimasti
liberi in Russia. Difendono la loro
libertà, non vogliono essere rastrellati dalla polizia e mandati
a languire, come uccelli in gabbia, nei ricoveri e nelle scuole
professionali. Sono fuori dall’immenso penitenziario sociale,
sono gli evasi, e il Governo sarebbe molto imbarazzato se
riuscisse a catturarli tutti, tanto sono numerosi. Giorno per giorno nuove nidiate sciamano,
figliolanze pullulanti da connubi temporanei, prodotte in
parentesi matrimoniali e divenute orfane di genitori viventi.
Vivono a branchi, a minuscole tribù che si vedono alle volte
appiattite negli angoli di qualche
“pereulog”, di quelle piccole strade dall’acciottolato sconnesso
che aprono sulle “ulize” (le vie principali) delle prospettive
da villaggio. Spiano le occasioni. Ad un segnale partono di
corsa, si mescolano al traffico, racimolano delle elemosine:
qualche “copeko”, qualche pezzetto di pane che le donne di
ritorno dal “mostorg” (il mercato libero) estraggono dal
sacchetto della spesa, con la circospezione di chi apre il
portafoglio.
Vestono inverosimili avanzi di
indumenti, giubboni che toccano terra, berretti di pelo tarlati
ed esorbitanti che uno straccio annodato sotto il mento rende
inamovibile, fasciature di brandelli di stoffa al posto delle
scarpe, il tutto tenuto insieme con spaghi e cordicella come un
pacco mal fatto.
Ce ne compare uno al fianco,
improvvisamente la mano tesa, il viso implorante, la voce
lacrimosa, chiedendoci pane con una cantilena monotona. Non avrà
dieci anni: porta in testa un logoro berretto militare sovietico
e calza un enorme paio di stivali di feltro, sforacchiati e
pelosi, che gli danno l’aria del gatto del marchese di Carabas.
“Glieba”, pane: è la parola più ripetuta in Russia, come una
volta la parola Dio. Ognuno di questi monelli, constata
l’assenza di guardie, adocchia il suo passante ed opera.
Noi non abbiamo denaro russo in tasca: ci
è proibito in Russia. Il ragazzo ci riconosce per stranieri,
cambia tono, sorride e trova una soluzione: “Grajdanin (cittadino) – ci dice –
dammi una sigaretta”. Dei gridi infantili laceranti fanno
volgere la folla. Laggiù, all’angolo di una piazzetta, uno dei
monelli è stato acchiappato da una guardia che lo tiene per un
braccio e lo trascina via ridendo. Il
piccolo si dibatte, urla, sferra calci sugli stivaloni del
gigante. La gente non guarda più e continua ad andare per i
fatti suoi, silenziosa e impassibile. Un momento dopo scorgiamo
la tribù dei “senza famiglia” che emigra attaccata dietro ad un
autocarro.
Queste bande, non avendo tessere e
passaporti, hanno il viaggio facile. Il loro campo di azione è
sterminato. Si spostano da città a città, secondo le stagioni.
Frequentano le stazioni ferroviarie e conoscono ingegnose
maniere per farsi trasportare dai treni senza che nessuno se ne
accorga. Si rannicchiano sopra una asse di vagone, si incastrano
in un carrello, cavalcano un respingente, si aggrappano non si
sa dove, non si sa come, e costituiscono i soli turisti indigeni
dell’U.R.S.S.
Alle fermate,
sotto i finestrini dei vagoni è un piagnucolio di monelli
elemosinanti. Non è raro che un ignaro
passeggero rimanga sbalordito dall’inesplicabile fenomeno di
vedersi chiedere la carità dallo stesso piccolo accattone al
quale ha dato un obolo due stazioni prima. È che il mendicante
viaggia con lo stesso treno, invisibilmente. Il personale
ferroviario, se vede, chiude gli occhi.
I ragazzi abbandonati hanno preso, nelle vie della metropoli, il
posto lasciato vacante dai cani randagi. I cani, anche quelli
non randagi, sono completamente scomparsi dalle città russe,
come sono scomparsi i gatti e tutti gli animali domestici delle
classi parassitarie (insetti esclusi). Vi
sono stati periodi della tragedia bolscevica in cui la fame ha
fatto utilizzare le più imprevedibili commestibilità. I cani ed
i gatti si sono trovati nell’alternativa di essere mangiati o di
morire di fame, per mancanza della tessera del pane. Comunque
sia, sono estinti. La base del regime sovietico è il
razionamento, che non può essere esteso ai dissidenti, ai
sospetti e agli animali improduttivi. Un effetto del comunismo
non ancora considerato dagli osservatori è lo sterminio degli
“amici dell’uomo”. Rimangono i lupi. Il cane è un essere
eminentemente aristocratico, un cortigiano, un ozioso, uno
sfruttatore. Adesso non vive più che nelle ambasciate.
L’umiliazione e il deperimento
dell’edilizia moscovita dipendono semplicemente dalla scomparsa
di quel detestabile individuo che è il padrone di casa. Egli, a
scopi bassi ed egoistici, curava la sua proprietà, la proteggeva
dai deterioramenti, cercava di mantenerne i pregi ed il valore,
riponendo in essa degli effetti personali di un carattere
deplorevolmente individualistico. La funzione del proprietario
come curatore del patrimonio nazionale appare ancora
insostituibile. Nessuno ha ereditato il suo interesse
all’integrità, alla nettezza e alla dignità della casa, perché
nessuno personalmente perde se la casa va in rovina e nessuno
guadagna se è ben tenuta. Niente è più nessuno. Il padrone di
tutto è lo Stato, un padrone smisurato, impersonale, solenne e
distratto, che pure essendosi impossessato di tutti i beni
privati si ritrova a non averne il reddito.
Lo Stato-Padrone ha messo in ogni edificio un suo modesto
funzionario che, per esperienza propria, ha sulla manutenzione e
la pulizia degli stabili delle idee che mancano di precisione. E
poi, i suoi compiti sono più di polizi che di pulizia. L’unico interesse di questo impiegato è di
mantenersi il posto, e nulla giova a tale scopo come limitare la
sorveglianza alle opinioni politiche degli inquilini. La facoltà
del “sovrintendente” del casamento si limita in ogni caso al
rapporto. Se occorre un lavoro urgente, scrive all’ufficio
superiore.
Così la rottura di un vetro di una
finestra diventa una questione governativa. Tutto è governativo.
Il vetro rotto mette in moto un meccanismo di relazioni,
ispezioni, autorizzazioni, controlli, scritturazioni, per
arrivare eventualmente alla fase conclusiva del buono di
prelevamento e dell’ordine di messa in opera. Si capisce che la
lunghezza della pratica e l’incertezza el suo esito rendano
consigliabile l’applicazione immediata di una copia della
“Isvetia” o della “Pravda” al buco della finestra rotta, e
l’attesa filosofica degli eventi. Il grande numero di questi
autorevoli giornali così utilizzati, è in ragione diretta delle
complicazioni burocratiche, e forse anche delle difficoltà che
la produzione del vetro in quantità sufficiente incontra ancora
nella Unione delle Repubbliche
Sovietiche Socialiste.
Al centro di Mosca cominciano a sorgere
nuove costruzioni sovietiche. Poche sono finite, quelle in
cantiere sono invisibili. I russi, che posseggono le più vaste
foreste del mondo, sono così prodighi di legname che per erigere
uno stabile in muratura cominciano a farne un altro più grande
di tavole, dentro al quale tirano su l’edificio al coperto dalle
intemperie ed al calore delle stufe. Senza questa chiusura, i
rigori del clima non permetterebbero il lavoro durante la
stagione fredda, cioè per sette mesi dell’anno. All’epoca della
nostra visita all’U.R.S.S., le maggiori costruzioni urbane del
bolscevismo, non ancora complete, si presentavano sotto la forma
misteriosa di gigantesche scatole di abete, costellate da
finestrine e coronate da fumanti ciminiere di bandone. La mole
di questi astucci rivelava una statura considerevole nel loro
contenuto.
Il più voluminoso di questi nuovi edifici è un “Grand Hotel”
cubico, capace di ospitare mille turisti stranieri. L’industria del forestiero, intesa come fonte di
risorsa nazionale e mezzo di propaganda internazionale, assume
nei progetti sovietici proporzioni grandiose. Ma il “Grand Hotel” matura lentamente. Allo stato in
cui lo abbiamo visto, era una enorme gabbia di cemento armato,
chiusa all’esterno con tramezzi di mattone, e ornata da
propagande pittoresche alte trenta metri, visibili da tutti i
punti della piazza Mojssejewskaia, centro turistico di Mosca.
Le nuove costruzioni cittadine si attengono ad un semplicismo
architettonico che deriva dalla indigenza di precedenti, dalla
rivolta contro ogni ispirazione continuativa, e dalla fretta.
L’edilizia bolscevica non ammette alcun riconoscimento della
tradizione, la quale, venendo dal passato è antirivoluzionaria.
L’originalità di questi edifici urbani
consiste in una austera rinunzia
all’abbigliamento. Ma ne viene una accorante uniformità di
fisionomia. Gli stabili nuovi si somigliano talmente che li
confondete l’uno con l’altro. Belle o brutte, le vecchie case
hanno ognuna il suo carattere, il suo tipo, la sua personalità.
Probabilmente la loro diversificazione è l’indice di un
individualismo contrario all’ideale comunista. Gli architetti
sovietici non hanno più il disturbo di avere delle idee
artistiche.
Ma la monotonia di questa nudità murale sta suscitando nella
“intellighentzia” russa una reazione imprevista. In certi
ambienti della cultura si manifesta
una decisa tendenza a ripudiare l’opinione che la mancanza di
qualsiasi stile sia un stile. Per avere una moda, sia pure
bolscevica, bisogna vestirsi. Sorgono
nuovi progetti che accolgono le forme e le risorse più antiche
dell’architettura monumentale. La futura sede dei Sovieti, della
quale si stanno scavando le fondamenta e che, non si sa perché,
dovrà superare in altezza tutti i grattacieli americani, sarà
ricca di colonne, di archi, di cornici, di timpani, come una
torreggiante e bizzarra sovrapposizione di templi. Nel disegno
ricorda i “gigli” di Nola o la “macchina” di Santa Rosa di
Viterbo.
Da questo fenomeno emerge un fatto interessante e strano: e cioè che l’arte bolscevica, fuggendo furiosamente tutte le forme del passato,
dopo aver percorso dei deserti si avvicina inconsapevolmente
all’ispirazione classica come chi correndo in giro nell’illusione di allontanarsi,
raggiunge quello che fuggiva. Il fatto
è che, nello sforzo di conferire al colossale palazzo il massimo
della imponenza e della solennità architettonica (per
impressionare il mondo con quella ossessionante avidità di
supremazia che è tipicamente bolscevica) questa gente tormentata
e frenetica intravvede vagamente fra le sue brume le sagome
della monumentalità romana. Forse perché non esiste nulla di più
supremamente e definitivamente grande.
Intendiamoci, questo stile sovietico ad
armadio rimarrà, perché risponde a quell’aspirazione di
cancellare il passato, di rinnegare la storia, e di schiacciare
il ricordo, che è alla base dello spirito bolscevico. Ma è
notevole che nella Russia comunista si manifesti un senso di
stanchezza per la geometrica ed egualitaria indigenza della
nuova architettura rivoluzionaria, una stanchezza che implica
imprecise nostalgie estetiche.
Nel complesso, le disordinate ma
formidabili attività costruttive del bolscevismo, essenzialmente
impegnate nelle gigantesche creazioni industriali alla periferia
della Capitale, non hanno ancora impresso sulla città stessa i
segni di un rinnovamento edilizio. Alcuni nuovi edifici entrati
in uso hanno preso subito un’aria vecchia, confusi nella folla
delle case di autentica vecchiaia. La maggior parte degli uffici
governativi si è insediata nel Cremlino, e quelli che non vi
hanno trovato posto accampano qua e là in stabili che furono
dimore private.
La trasformazione di Mosca non è tanto
nei muri quanto in un mutamento di destinazione. Le chiese sono al loro posto, esteriormente intatte,
ma adibite a servizi profani, vari e inaspettati. Ospitano musei
antireligiosi, sale da conferenze, più spesso cinematografi.
Sulla massima delle loro cinque cupole bizantine, quella
centrale, si legge in questo caso la parola “Kine” (cinema),
scritta a caratteri esorbitanti che alla sera si illuminano. Ai fianchi della grande porta, dei cartelloni a
colori proclamano le bellezze dell’ultimo “parlato”, ed al posto
dell’altare sta lo schermo su cui si muovono le multiformi
immagini della nuova divinità: la Propaganda. Si afferma che vi
sia ancora qualche chiesa aperta al culto, ma non abbiamo avuto
la ventura di incontrarne.
Ci si imbatte in bizzarri monumenti,
statue di lavoratori simbolici, isolati o in gruppo, dalle forme
massicce e inumane, gambe a
parallelepipedo e braccia a tubo di stufa, incomprensibili e
trionfali. Sulle impalcature di legno che sovrastano un cantiere
della ferrovia sotterranea in costruzione, sulla piazza
“Revoliutsi”, si ergono tre operai di bronzo, aggruppati, con i
vestiti senza pieghe, gonfi di energia, protesi in avanti, le
bocche urlanti, le mani levate ad indicare qualche cosa
all’orizzonte, come naufraghi che gridano: “Una vela! Una
vela!”.
Chi fugge alle stilizzazioni deformanti è l’immagine scolpita di
Lenin, riprodotta in innumerevoli edizioni, di un verismo
borghese. Ogni tanto ci si trova di fronte ad un Vladimir Ilic
Ulianov di bronzo, poco più grande del vero, che perora sotto ad
un portico o sul fronte di un edificio, la destra in alto, i
calzoni fedelmente spiegazzati, i polsini bene a posto con i
loro gemelli, il colletto perfetto e la cravatta annodata
diligentemente. Egli è trattato con il rispetto dovuto ai santi.
Le lanterne del traffico alternano le
loro luci rosse e verdi, benché le automobili siano
relativamente così poche che potrebbero fare a meno dei comandi.
Il traffico, paragonato a quello delle nostre città, è
all’infanzia, ma tutto è pronto per quando diventerà adulto. Le guardie stradali, con la cuffia di lana sotto
all’elmo di feltro, i grossi stivali alla cosacca, flemmatiche
ed impassibili tendono le braccia in larghi gesti semaforici. La
folla dei pedoni, docile, oscura e senza voce, li vigila ammassata per traversare al segnale.
Qualche tratto della via è allargato e le automobili sollevano
passando enormi ventagli d’acqua di un effetto navale, come se
delle torpediniere filassero sulle
vastità della Mojssejewskaia.
Con una certa frequenza vedete passare rasente il marciapiede
dei carri strani, dipinti di bianco, tirati da un vecchio
cavallo e guidati da un povero diavolo della consueta tulupe del
mugik. Sono umili veicoli formati da
una piattaforma su quattro ruote, agli
angoli della quale si drizzano quattro colonnette tornite,
simili a quelle che adorano certi letti antichi. Se ne vanno
solitari, al passo, col il conducente seduto di sbieco nella
posizione familiare ai cocchieri pubblici della vecchia Russia,
che conversano amabilmente con il cliente seduto dietro di loro.
Ma questo “isvoscik” non conversa: il suo cliente è un morto.
Sulla piattaforma, una rude bara senza coltre, una specie di
cassa da imballaggio nuda sulla quale non c’è alcun segno,
nemmeno l’indirizzo.
Poiché Dio è stato destituito, e non c’è più un “al di là”, i
morti sono ben morti e non rappresentano più che delle sostanze
organiche da eliminare per combustione. Inutile confezionarli in
sarcofaghi, e onorarli di simboli. D’altronde, non c’è posto per
loro. Visto che sono destinati a diventare polvere, vengono
polverizzati senza perdita di tempo al forno crematorio. Il
culto dei morti, a meno che non si tratti di grandi personalità
del bolscevismo da immortalare con una tomba ai piedi del
Cremlino, nel cimitero degli apostoli, è un culto che non ha più
ragione di esistere, come tutte le altre superstizioni borghesi.
La carretta bianca, sporca di fango, se
ne va sola, disadorna, inosservata, con la sua cassa di abete
fra i quattro pioli, senza un drappo, senza l’indice di un
ricordo. Se la cassa è verniciata di rosso, vuol dire che
l’estinto apparteneva al partito comunista. Gli altri non hanno
diritto ad alcun colore, tanto meno al nero, interdetto per
connivenze con la religione. I passanti non si voltano, non
salutano, e dietro al feretro non c’è abitualmente nessuno. Una
volta sola abbiamo visto un funerale seguito da un piccolo
corteo. Sul carro, in piedi con posa statuaria un operaio
sorreggeva una bandiera rossa. Era il saluto a un “udarnik”
defunto.
In verità, un bolscevico non potrebbe
scegliere un momento peggiore di questo per morire. Il vecchio
paradiso è stato soppresso, il paradiso comunista è ancora
lontano dal funzionare, e chi trapassa adesso si trova frodato
di qua e di là. Se ne va verso il niente, senza aver avuto
niente, senza sperare in niente. E
senza neppure quel piccolo gesto di rispettoso commiato della
folla che conferisce al più umile cadavere gli onori di un
personaggio che parte.
Improvvisamente, il Cremlino.
Girovagando per Mosca, si finisce inevitabilmente per arrivare
davanti al castello degli zar, su quella sterminata piazza il
cui nome “Krasnaia” significa Rossa ma in vecchio russo vuol
dire “Principale”. Tutte le grandi vie della capitale vi
convergono a raggiera. Ognuna di queste strade arriva da un
confine dell’impero. Il loro inizio lontano è un sentiero di
foresta, una pista cammelliera nelle steppe, un solco di slitte nelle tundre. Una viene dal
Baltico, una dal Mar Bianco, una dagli Urali, una dal Caspio,
una dal Mar Nero, una dai Carpazi. La viabilità della Russia è
una stella che ha per centro il Cremlino. La pianta di Mosca è
disegnata dalla confluenza di questi fili di traffico, tesi su
migliaia e migliaia di chilometri come i raggi di una immensa
ragnatela. Avvicinandosi all’incontro le strade si vestono di
gala, ed è con un sontuoso fiancheggiamento di palazzi che
sboccano sulla piazza del castello imperiale.
Nulla può dare l’idea di un cuore come
questa solenne irradiazione di arterie per le quali è passata la
vita di un mondo, il sangue di una grande storia, formidabile di
potenza, di barbarie, di magnificenza; una storia alla quale non
giunse mai un concetto civile del diritto, che è cosa romana, né
un concetto cristiano dell’umanità, che è pure cosa romana, che
ignorò le crociate e rimase estranea al loro influsso
cavalleresco spirituale e nobilizzatore; una storia nella quale non entrò mai una nozione
precisa della proprietà, poiché la proprietà era un privilegio
revocabile, una concessione signorile non aperta all’acquisto e
inaccessibile al lavoro; una storia profondamente asiatica che
nella sua impetuosa trasformazione attuale, in cui sembra
rinnegare tutto il passato, conserva intatta l’anima del
passato. Queste strade che si riuniscono sulla Piazza Rossa
erano arterie di conquiste e di traffici che rovesciavano
prodotti, ambascerie, tributi, e talvolta invasioni sulla grande
spianata dove andavano a rigurgitare i
tesori ed i tumulti di due continenti, e che erano risalite da
afflussi di potenza dominatrice fino alle favolose regioni del
Turkestan e della Cina.
La Piazza Rossa è stata fino ad ora uno dei più grandi mercati
del mondo. Vi si decidevano affari e
guerre. Tutto finiva lì e tutto cominciava da lì. Vi hanno
combattuto i tartari (e sulla torre Nabatnaia del Cremlino c’è
ancora la campana che avvertiva gli abitanti dell’avvicinarsi
del nemico perché si rifugiassero dentro le mura merlate della
fortezza), vi hanno combattuto i polacchi, vi hanno tuonato i
cannoni francesi, e i popoli di ogni razza vi hanno tenuto
bottega. Il commercio cercava il punto
meglio protetto, e si era insediato davanti alla reggia. E fino
alla Rivoluzione la Piazza Rossa ha conservato il carattere
esclusivo di mercato. Un mercato fantastico.
Rimangono gli edifici di quell’immenso “bazar” delle famose
Targoviie Riadi (i Passaggi del Commercio), monumentali gallerie
lunghe un chilometro che fiancheggiano l’intera Piazza Rossa di
fronte alle muraglie italiane del Cremlino. Era un istituzione
tipicamente orientale, la più grande che esistesse di quel
genere e costituiva una della maggiori curiosità di Mosca.
Consisteva in lunghe strade coperte fiancheggiate da quattro
ranghi di negozi, con scalette e balconate per accedere a ranghi
superiori, ed altre file di negozi all’esterno, sulla piazza:
tutta una città di vetrine colme degli oggetti e delle merci che
l’Asia e l’Europa producono. Pellicce preziose, scialli di
Orenburg che sembravano nebbia, argenterie moscovite, porcellane
cinesi, tappeti rari che si sarebbero detti tessuti con fili di
rubino e di smeraldo, bellezze antiche e bellezze nuove, a
masse, a montagne, una fiumana di cose espresse dal gusto, dalla
tradizione e dall’arte di centinaia di popoli. Occorrevano ore
ed ore soltanto per passarvi davanti. C’era di tutto. Non c’è
più niente. Muri pieni di desolazione.
Le vetrine sono vuote, le gallerie silenziose non servono che da
scorciatoia a pedoni frettolosi, alcuni dei quali, sboccando
alla Porta Iverski dove è ancora la cappelletta della Vergine
d’Iberia, che era la più venerata Madonna della Russia,
abbozzano un gesto di saluto. I nostri passi risuonano sui
pavimenti sconnessi. Sui vetri polverosi si leggono tracce di
scritte (“On parle français”), e nelle mostre figurano
collezzioni di mosche morte. Ma di tanto in tanto si vede un
negozio aperto che vende merce sovietica disposta su bancarelle
di legno grezzo come ad una fiera di villaggio, umili stoffe di
cotone spiegate, berretti, stoviglie di metallo. Sono povere
oasi nel deserto.
Fra le botteghe vuote scorgiamo attraverso i vetri un locale
animato, pieno di gente che conversa seduta a piccoli tavolini
intorno a lampade dal paralume verde. Un Caffè, pensiamo
sorpresi ma confortati e, con il piacere di chi incontra un amico nella solitudine, attirati dalla riposante e
familiare visione, senza pensarci due volte schiudiamo la porta
vetrata con l’intenzione di sorbire un bicchiere di tè in una
atmosfera di normalità. Al nostro
ingresso la folla di supposti clienti sospende le discussioni
per guardarci. Dalla loro aria interdetta e stupita abbiamo
compreso che la nostra intrusione non era nell’ordine naturale
delle cose. Ci siamo ritirati
chiedendo scusa. Eravamo entrati in un ufficio del Commissariato
del Commercio.
Ma ecco un affollamento. Sotto la luce crepuscolare
che filtra dal lucernario sporco, un venditore ambulante, in
piedi sopra uno sgabello, attira i passanti vantando le virtù di
un piccolo strumento che tagli le patate in forme capricciose e
che egli offre per pochi copeki. Dai
tuberi di cui è fornito egli trae con il suo strumento dei
riccioli di polpa bionda, dei cavaturaccioli carnosi che
presenta come argomento incitativo al pubblico, l quale assiste
in grave silenzio alla nascita di quelle spirali cerulee, come
ad un piccolo prodigio della meccanica. Con uno spelato
berrettone alla circassa calzato fino alle orecchie, da sotto al
quale spuntano disordinate ciocche di capelli a pannocchia di
granoturco, la faccia scavata ed astuta, la tulupe di pelliccia
di capra logora e sfrangiata, il venditore ha un’aria antica da
ciarlatano di kermesse uscito da qualche quadro fiammingo. È
l’ultimo rappresentante del commercio libero.
Fuori, la Piazza Rossa è deserta. Ai lati della porta di bronzo
del mausoleo di Lenin, due sentinelle si fronteggiano in un
atteggiamento identico, il calcio del fucile a terra e la canna
inclinata in avanti tenuta a braccio teso, rigorosamente e
inverosimilmente immobili, simmetriche come due statue. Annotta,
il formicaio oscuro dei pedoni si dirada nelle vie. Lungo un lato di un “pereulog” si distende una lunga
file di donne in povere vesti, ferme, silenziose, ognuna con un
piccolo recipiente di latta in mano aspettando qualche
distribuzione, i piedi mal calzati nel fango. Nulla è più raro
di un paio di scarpe decenti.
Simile ad una pubblicità luminosa senza parole, si accende in
cima al più alto dei due nuovi edifici della polizia un grande
profilo di Lenin, disegnato da tubi di “neon”.
* * *