Luigi Barzini – URSS. L’impero del lavoro forzato  >  3. Una disperata fatica

 

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3. Una disperata fatica

 

Strade nuove ma che sembrano non finite, mal tenute, rovinate dal traffico pesante degli autocarri, ci portano da una officina all’altra nei sobborghi di Mosca, attraverso ad un disordine di cantiere sparpagliato sulla landa nevosa. Tutto ha un’apparenza caotica e provvisoria.
La visita dello straniero agli stabilimenti industriali dell’U.R.S.S. segue un rito protocollare. Lo straniero confida all’Agenzia turistica (“Inturist”) la lista delle cose che vuole vedere; l’agenzia la comunica alla “Ghepeù”; questa consulta gli archivi per conoscere i precedenti politici del petente e decide che cosa permettere e che cosa vietare (a noi, per esempio, non è stato concesso di visitare la fabbrica di cuscinetti a sfere impiantata da italiani). Una guida di fiducia è messa infine a fianco del visitatore, ed il viaggio alle “Piatiletke” si svolge regolarmente a prezzi di tariffa.
La guida è generalmente una donna. Nel personale dell’ “Inturist” non si vedono che donne, signore distinte di una certa età, vestite modestamente di indumenti antiquati e rammendati, le quali parlano varie lingue con sobrietà cortese. La guida è invece giovane e le parla con esuberanza e continuità assidua ed impersonale, come un fonografo.
Vaste come quartieri, le folle delle nove costruzioni industriali si ergono oscure, rozze, coperte per lo più di legname, con un’apparenza sommaria e povera d’improvvisazione, veri baraccamenti per macchine, irte di ciminiere e prese in ragnatele di cavi elettrici, sui quali il gelo ha appeso le sue biancherie scintillanti.
Immobili sentinelle dal grigio berretto sovietico, che finisce a tubo come un imbuto rovesciato, i grossi guanti di lana a calzetta, il calcio del fucile sotto l’ascella, sbarrano gli ingressi. Fuori i documenti. Pare di varcare una frontiera.
Si entra in piccoli uffici da corpo di guardia per misteriosi controlli, bolli, firme. Vi è ovunque una vigilanza di guerra. Tutto è in regola: si schiude una barriera d travi e passiamo.
La visita comincia normalmente con una conferenza del direttore, in qualche angolo deserto del reparto amministrativo. È una cateratta di cifre. Il direttore vi fornisce dati sulla produzione presente e futura, sull’aumento del numero di operai impiegati, e se vi interessate al rendimento umano non esita talvolta a dichiararvi che l’efficienza operaia tedesca è già sorpassata e l’efficienza americana lo sarà fra un anno. Poiché gli ingegneri tedeschi e americani impiegati dall’U.R.S.S. ritengono invece ci vogliono diversi russi per fare il lavoro di un operaio occidentale, voi avete la più ampia scelta di opinioni in proposito.
Dopo la preparazione direttoriale siete accompagnato alle corsie del lavoro dove vedete quello che avete già visto in altri paesi, nei quali queste macchine e queste produzioni hanno da epoche diritto di cittadinanza. Ma l’interesse di queste visite non è nei processi di fabbricazione, che sono i nostri. È nell’enormità dello sforzo di acclimatazione tecnica.

 

Quello che la Russia sovietica offre di impressionante è la vastità e la contemporaneità delle innovazioni. È l’urgenza e la misura dell’opera. Non è una coltivazione di industrie ma un trapiantamento di massa. Allo stesso modo Pietro il Grande trasportò sulla terra russa tutte le industrie mature dell’Europa, in un colpo solo.
Qualunque sia il costo, il rendimento, lo scopo e il destino di questa impetuosa trasformazione, essa offre la visione di una fatica gigantesca, penosa e disperata, piena di una truce magnificenza.
È la terza incarnazione del bolscevismo. Esso cominciò col distruggere tutte le discipline produttive e col disorganizzare le industrie perseguendo una utopia egualitaria: fu il comunismo dei primi quattro anni. La società venne spianata al livello unico di un’agonia comune. Ma, nel pieno della catastrofe il bolscevismo disorientato si ritrasse, ripristinò la libertà dei mercati, riammise l’industria privata, lasciò alle forze naturali la cura di alleviare le miseria del Paese: fu la “Nep”, la “Nuova politica economica”, una rientrata della proprietà. Si ricorse al capitalismo come ad una medicina. Ma nella normalità e nella prosperità che rinascevano stavano affondando e scomparendo gli avanzi della concezione comunista. Ed ecco l’ultima fase: l’appello alla possanza della tecnica, della scienza, del progresso stranieri, la mobilitazione delle risorse, delle competenze, delle fatiche, sotto la sferza di rigori spietati e di fanatismi frenetici, per una ricostruzione parossistica che abbandona tutte le leggi dell’economia.
La produzione industriale è quadruplicata
nel confronto dell’anteguerra, ma ad un costo fantastico. Il prezzo di ogni macchina che esce dalle officine dell’U.R.S.S.  è incalcolabile. Si lavora per tutto in perdita. Non vi è azienda russa che potrebbe vivere altrove. All’estero queste imprese condurrebbero i proprietari alla miseria. In Russia pure: il proprietario è il popolo. Ed è la resistenza del popolo alla miseria che costituisce una base di stabilità a questo straordinario regime.
Ma lo spettacolo di tali attività di moltitudini in miseria, docili, mute enigmatiche, minacciate da sanzioni crudeli e incitate dai clamori di una propaganda parossistica e infiammatoria ha una imponenza tragica, un’angosciosa ed inumana grandezza. Esse corrono verso supreme speranze. Dove  arriveranno? Non importa. La visione del futuro è il loro nuovo paradiso.
È un’operosità intensa e senza gaiezza. È una massa di entusiasmi, di rassegnazioni, di ferocie, di atonie, saldati tutti ad una stessa catena, in un fragore di macchine, in un odore acre di folla che non si lava, fra voci stentoree di altoparlanti, sbandieramenti di drappi rossi, ritratti di bulgravi bolscevichi, urli di “brigate d’assalto”, nubi di fumo, baionette. E sullo sfondo grigio di questa Russia coatta, battaglioni di soldati in tonache fulve e berretti a cappuccio, simili a frati guerrieri, passano lanciando aspri canti, come al tempo degli zar, con l’impassibilità dell’abitudine.

 

In questo mondo spietato ed elettrificato noi ritroviamo l’antico “mir” collettivista, l’antico “artel” cooperativista, l’antico “soviet” legislatore, e ritroviamo le idee di Boris Godunov sul servaggio, le idee di Ivan il Terribile sul monopolio governativo del commercio estero. Ma i bolscevichi proclamano che tutto questo è Karl Marx. La cosa che più sorprende è appunto il contrasto fra quello che avviene e quello che si vocifera, si predica e si stampa. Non c’è in Russia nulla di più inesplicabile della spiegazione.  
Il Paese è praticamente nelle mani degli “spetz” (gli specialisti) chiamati a dar vita alle loro più ardue concezioni, ma la retorica bolscevica è rimasta alla prefazione comunistica. Si sente un bisogno di fissità dogmatiche in questo evolversi vertiginoso di cose in cui si formano nuove classi, nuove gerarchie, nuovi privilegi, nuove oppressioni.
Vi è una rigidità biblica nelle dottrine del regime sovietico, qualche cosa di religioso. Esso si rifugia dietro le formule di una teologia rivoluzionaria, con un linguaggio da predicatori e da missionari rossi, pieno di massime dogmatiche e oscure, di anatemi e di credi. È un regime di testi sacri, di sacri concili, con i suoi santi, le sue reliquie, i suoi riti (ed è una eccellente inquisizione per lo sterminio degli eretici).
Il bigottismo comunista somiglia molto al bigottismo ortodosso della vecchia Russia, assetato di proselitismo e persuaso di esser chiamato a far la luce sul resto detestabile del mondo. Tutto questo è per il nostro spirito latino opprimente come un incubo, ma non ci nascondiamo la sua forza.
Il linguaggio marxista è una specie di “volapuk” internazionale con il quale il bolscevismo parla all’immaginazione di masse di ogni razza, ignare e lontane.
La ossessionante propaganda russa proietta su tutti gli orizzonti una visione apocalittica di costruzioni trionfali erette da un “proletariato dittatore”.
Il lavoro dei centomila schiavi che costruirono la grande Piramide di Cheope aveva il carattere di questo “comunismo”. Il quale non sarebbe possibile senza la onnipresenza di una polizia formidabile, la “Ghepeù”, perfezionamento della “Ceka” che era un perfezionamento della “Okrana” zarista: una polizia di fronte alla quale la terribile “Terza sezione” di Nicola I appare mite come un comitato di beneficenza.
Ognuno si sente sorvegliato. Non si sa dove l’occhio o l’orecchio della “Ghepeù” possano celarsi. L’amico, il fratello, il figlio, sono stati in molti casi degli informatori austeri che hanno mandato parenti e conoscenti al muro di esecuzione. La deportazione infierisce. Persone sospette di comunicazioni con l’estero o colpevoli di aver avuto contatti non autorizzati con qualche ambasciata, sono sparite. Innumerevoli sono i casi di scomparsa detta “amministrativa”. Capitano anche a dei bolscevichi, quando le loro idee sembrano meno aderenti alle direttive del momento. Questa persecuzione si chiama qui “lotta di classe”, anche quando colpisce i compagni di Lenin.
Essa sale, e non si sta più tranquilli negli alti ranghi del sovietismo. La paura è divenuta la forza dominante. È lei che governo ed è lei che obbedisce. È difficile dire dove finisca. Essa tiene tutti, dalla cima al fondo delle gerarchie, e da lei viene la ferocia delle precauzioni governative al minimo incidente che possa attribuirsi ad una opposizione. Le regioni meno ospitali della Siberia sono frequentate da rivoluzionari in disgrazia. Uno zar non vi avrebbe mandato persone diverse.  
Ma la Siberia è una punizione generosa. La privazione del pane è la pena più comune per la piccola gente. Il diritto di mangiare non è qui implicito e naturale. C’è molta gente che senza essere deliberatamente condannata a morire non è ufficialmente autorizzata a vivere.
La sospensione del pane sopprime indiscipline e indisciplinati. Si effettua su individui, con la privazione del lavoro e quindi del mezzo per mangiare, e si esercita su masse, non lasciando o non distribuendo loro il grano per sfamarsi. È semplice e automatica come la chiusura di un rubinetto. Le regioni agricole che si mostrano ribelli all’istituzione delle “collettivazioni” sono semplicemente degranizzate. Nel 1933, alcuni milioni di contadini sono stati lasciati morire di fame in Ucraina, perché non volevano rinunciare alla proprietà dei loro campi. Aggiungiamo, per debito di equità, che è stato anche fucilato a Mosca il Commissario del Popolo per l’Agricoltura, insieme a due suoi sottosegretari, sotto l’accusa di debolezza verso gli ucraini. Le “collettivazioni” galoppano.
Adesso si muore di fame nel Turkestan, dove, secondo persone degne di fiducia che hanno visto, è comune trovare cadaveri per le strade, e si digiuna in varie altre zone. Si tratta di “incidenti” che non arrivano alla stampa. O vi provocano un accenno laconico ed intimidante, come quando si è pubblicata mesi or sono una lista di popolose “stanitze” cosacche del Caucaso settentrionale con l’annunzio che avevano “cessato di esistere”.
Con questi mezzi tutto va come un orologio.
Sul lavoro, disubbidire, o mancare, o sbagliare, sono colpe che possono assumere l’aspetto di attentati ai “Piani”. È sorta la figura del “crimine economico”, qualche cosa paragonabile al tradimento contro lo Stato in tempo di guerra. Avviene spesso che, per aver prodotto pezzi difettosi, degli operai siano stati arrestati e deferiti ai Tribunali speciali, che sono delle vere corti marziali sul fronte del lavoro.
Non è un padrone comodo il comunismo. Paga compensi di miseria, impone il cottimo, dimezza lo stipendio all’operaio la cui macchina si ferma, purché egli non vi abbia colpa, perché se vi ha colpa l’operaio è sospeso o processato. La “Ghepeù” ha arrestato tanta gente che si è messa ad intraprendere lavoro colossali con le moltitudini dei suoi prigionieri politici.
Sono eserciti di prigionieri che scavano canali, erigono impianti, costruiscono ferrovie, tagliano foreste, operano fabbriche, faticano fra i ghiacci della Carelia e sulle steppe infuocate dell’Asia Centrale, erigono fortificazioni sull’Amur, fanno strade nel Turkestan; e tutti quegli ingegneri di cui leggiamo ogni tanto la condanna per “sabotaggio” o per “connivenza col nemico” formano gli stati maggiori – detenuti – nella sterminata e cruenta battaglia del lavoro forzato.

 

Sarebbe un grave errore non riconoscere l’esistenza ed il valore di un sincero entusiasmo fra i più giovani, fra coloro che non conoscono e non concepiscono altra vita, e che l’educazione bolscevica ha forgiato nella persuasione di essere i liberi ed i privilegiati del mondo, circondati dalla miseria e dall’oppressione del “capitalismo” che li invidia e medita la loro aggressione. La contentabilità degli uomini dipende dall’idea che essi si sono fatti del “meglio”. Tutto è relativo. Da secoli, tribù di popoli arretrati mancano di quello che a noi pare necessario, e sono perfettamente soddisfatte e felici. La nostra miseria è la loro normalità.
Lievi fili di una fede mistica e fanatica si intrecciano al greve e opaco tessuto di inerzia, di fatalismo, di passività e di paura che costituisce la massa del popolo russo, e lo tengono insieme in una compattezza di disciplina, di rassegnazione e di speranza.
Queste sono le energie positive sotto al cui martellamento di forgia un destino indefinibile. Nessuno può dire se è il sogno di Lenin od il sogno di Pietro il Grande che trascina la Russia verso un avvenire misterioso.

 

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