Luigi Barzini – URSS. L’impero del lavoro forzato > 3. Una disperata fatica
* * *
Strade nuove ma che sembrano non
finite, mal tenute, rovinate dal traffico pesante degli
autocarri, ci portano da una officina all’altra nei sobborghi di
Mosca, attraverso ad un disordine di cantiere sparpagliato sulla
landa nevosa. Tutto ha un’apparenza caotica e provvisoria.
La visita dello straniero agli
stabilimenti industriali dell’U.R.S.S. segue un rito protocollare. Lo straniero confida
all’Agenzia turistica (“Inturist”) la lista delle cose che vuole
vedere; l’agenzia la comunica alla “Ghepeù”; questa consulta gli
archivi per conoscere i precedenti politici del petente e decide
che cosa permettere e che cosa vietare (a noi, per esempio, non
è stato concesso di visitare la fabbrica di cuscinetti a sfere
impiantata da italiani). Una guida di fiducia è messa infine a
fianco del visitatore, ed il viaggio alle “Piatiletke” si svolge
regolarmente a prezzi di tariffa.
La guida è generalmente una donna. Nel personale dell’
“Inturist” non si vedono che donne, signore distinte di una
certa età, vestite modestamente di indumenti antiquati e
rammendati, le quali parlano varie lingue con sobrietà cortese.
La guida è invece giovane e le parla con esuberanza e continuità
assidua ed impersonale, come un fonografo.
Vaste come quartieri, le folle delle nove
costruzioni industriali si ergono oscure, rozze, coperte per lo
più di legname, con un’apparenza sommaria e povera
d’improvvisazione, veri baraccamenti per macchine, irte di
ciminiere e prese in ragnatele di cavi elettrici, sui quali il
gelo ha appeso le sue biancherie scintillanti.
Immobili sentinelle dal grigio berretto
sovietico, che finisce a tubo come un imbuto rovesciato, i
grossi guanti di lana a calzetta, il calcio del fucile sotto
l’ascella, sbarrano gli ingressi. Fuori i documenti. Pare di
varcare una frontiera.
Si entra in piccoli uffici da corpo di guardia per misteriosi
controlli, bolli, firme. Vi è ovunque una vigilanza di guerra.
Tutto è in regola: si schiude una barriera d travi e passiamo.
La visita comincia normalmente con una conferenza del direttore,
in qualche angolo deserto del reparto amministrativo. È una
cateratta di cifre. Il direttore vi fornisce dati sulla
produzione presente e futura, sull’aumento del numero di operai
impiegati, e se vi interessate al rendimento umano non esita
talvolta a dichiararvi che l’efficienza operaia tedesca è già
sorpassata e l’efficienza americana lo sarà fra un anno. Poiché
gli ingegneri tedeschi e americani impiegati dall’U.R.S.S.
ritengono invece ci vogliono diversi russi per fare il lavoro di
un operaio occidentale, voi avete la più ampia scelta di
opinioni in proposito.
Dopo la preparazione direttoriale siete
accompagnato alle corsie del lavoro dove vedete quello che avete
già visto in altri paesi, nei quali queste macchine e queste
produzioni hanno da epoche diritto di cittadinanza. Ma
l’interesse di queste visite non è nei processi di
fabbricazione, che sono i nostri. È nell’enormità dello sforzo
di acclimatazione tecnica.
Quello che la Russia sovietica offre di impressionante
è la vastità e la contemporaneità delle innovazioni. È l’urgenza e la misura dell’opera. Non è una
coltivazione di industrie ma un trapiantamento di massa. Allo
stesso modo Pietro il Grande trasportò sulla terra russa tutte
le industrie mature dell’Europa, in un colpo solo.
Qualunque sia il costo, il rendimento, lo scopo e il destino di
questa impetuosa trasformazione, essa offre la visione di una
fatica gigantesca, penosa e disperata, piena di una truce
magnificenza.
È la terza incarnazione del bolscevismo.
Esso cominciò col distruggere tutte le discipline produttive e
col disorganizzare le industrie perseguendo una utopia
egualitaria: fu il comunismo dei primi quattro anni. La società
venne spianata al livello unico di un’agonia comune. Ma, nel
pieno della catastrofe il bolscevismo disorientato si ritrasse,
ripristinò la libertà dei mercati, riammise l’industria privata,
lasciò alle forze naturali la cura di alleviare le miseria del
Paese: fu la “Nep”, la “Nuova politica economica”, una rientrata
della proprietà. Si ricorse al capitalismo come ad una medicina.
Ma nella normalità e nella prosperità che rinascevano stavano
affondando e scomparendo gli avanzi della concezione comunista.
Ed ecco l’ultima fase: l’appello alla possanza della tecnica,
della scienza, del progresso stranieri, la mobilitazione delle
risorse, delle competenze, delle fatiche, sotto la sferza di
rigori spietati e di fanatismi frenetici,
per una ricostruzione parossistica che abbandona tutte le leggi
dell’economia.
La produzione industriale è quadruplicata nel confronto dell’anteguerra, ma ad un costo
fantastico. Il prezzo di ogni macchina che esce dalle officine
dell’U.R.S.S. è incalcolabile. Si lavora per tutto in perdita.
Non vi è azienda russa che potrebbe vivere altrove. All’estero
queste imprese condurrebbero i proprietari alla miseria. In
Russia pure: il proprietario è il popolo. Ed è la resistenza del
popolo alla miseria che costituisce una base di stabilità a
questo straordinario regime.
Ma lo spettacolo di tali attività di
moltitudini in miseria, docili, mute enigmatiche, minacciate da
sanzioni crudeli e incitate dai clamori di una propaganda
parossistica e infiammatoria ha una imponenza tragica,
un’angosciosa ed inumana grandezza. Esse corrono verso supreme
speranze. Dove arriveranno? Non importa. La visione del futuro
è il loro nuovo paradiso.
È un’operosità intensa e senza gaiezza. È
una massa di entusiasmi, di rassegnazioni, di ferocie, di
atonie, saldati tutti ad una stessa catena, in un fragore di
macchine, in un odore acre di folla che non si lava, fra voci
stentoree di altoparlanti, sbandieramenti di drappi rossi,
ritratti di bulgravi bolscevichi, urli di “brigate d’assalto”,
nubi di fumo, baionette. E sullo sfondo grigio di questa Russia
coatta, battaglioni di soldati in tonache fulve e berretti a
cappuccio, simili a frati guerrieri, passano lanciando aspri
canti, come al tempo degli zar, con l’impassibilità
dell’abitudine.
In questo mondo spietato ed
elettrificato noi ritroviamo l’antico “mir” collettivista, l’antico “artel” cooperativista, l’antico “soviet”
legislatore, e ritroviamo le idee di Boris Godunov sul
servaggio, le idee di Ivan il Terribile sul monopolio
governativo del commercio estero. Ma i bolscevichi proclamano
che tutto questo è Karl Marx. La cosa che più sorprende è
appunto il contrasto fra quello che avviene e quello che si
vocifera, si predica e si stampa. Non c’è in Russia nulla di più
inesplicabile della spiegazione.
Il Paese è praticamente nelle mani degli
“spetz” (gli specialisti) chiamati a dar vita alle loro più
ardue concezioni, ma la retorica bolscevica è rimasta alla
prefazione comunistica. Si sente un bisogno di fissità
dogmatiche in questo evolversi vertiginoso di cose in cui si
formano nuove classi, nuove gerarchie, nuovi privilegi, nuove
oppressioni.
Vi è una rigidità biblica nelle dottrine del regime sovietico,
qualche cosa di religioso. Esso si rifugia dietro le formule di
una teologia rivoluzionaria, con un linguaggio da predicatori e
da missionari rossi, pieno di massime dogmatiche e oscure, di
anatemi e di credi. È un regime di testi sacri, di sacri
concili, con i suoi santi, le sue reliquie, i suoi riti (ed è
una eccellente inquisizione per lo sterminio degli eretici).
Il bigottismo comunista somiglia molto al bigottismo ortodosso
della vecchia Russia, assetato di proselitismo e persuaso di
esser chiamato a far la luce sul resto detestabile del mondo.
Tutto questo è per il nostro spirito latino opprimente come un
incubo, ma non ci nascondiamo la sua forza.
Il linguaggio marxista è una specie di “volapuk” internazionale
con il quale il bolscevismo parla all’immaginazione di masse di
ogni razza, ignare e lontane. La
ossessionante propaganda russa proietta su tutti gli orizzonti
una visione apocalittica di costruzioni trionfali erette da un
“proletariato dittatore”.
Il lavoro dei centomila schiavi che costruirono la grande
Piramide di Cheope aveva il carattere di questo “comunismo”. Il
quale non sarebbe possibile senza la onnipresenza di una polizia
formidabile, la “Ghepeù”, perfezionamento della “Ceka” che era
un perfezionamento della “Okrana” zarista: una polizia di fronte
alla quale la terribile “Terza sezione” di Nicola I appare mite
come un comitato di beneficenza.
Ognuno si sente sorvegliato. Non si sa
dove l’occhio o l’orecchio della “Ghepeù” possano celarsi.
L’amico, il fratello, il figlio, sono stati in molti casi degli
informatori austeri che hanno mandato parenti e conoscenti al
muro di esecuzione. La deportazione infierisce. Persone sospette
di comunicazioni con l’estero o colpevoli di aver avuto contatti
non autorizzati con qualche ambasciata, sono sparite.
Innumerevoli sono i casi di scomparsa detta “amministrativa”.
Capitano anche a dei bolscevichi, quando le loro idee sembrano
meno aderenti alle direttive del momento. Questa persecuzione si chiama qui “lotta di classe”,
anche quando colpisce i compagni di Lenin.
Essa sale, e non si sta più tranquilli negli alti ranghi del
sovietismo. La paura è divenuta la forza dominante. È lei che
governo ed è lei che obbedisce. È difficile dire dove finisca.
Essa tiene tutti, dalla cima al fondo delle gerarchie, e da lei
viene la ferocia delle precauzioni governative al minimo
incidente che possa attribuirsi ad una opposizione. Le regioni
meno ospitali della Siberia sono frequentate da rivoluzionari in
disgrazia. Uno zar non vi avrebbe mandato persone diverse.
Ma la Siberia è una punizione generosa. La privazione del pane è la pena più comune per la
piccola gente. Il diritto di mangiare non è qui implicito e
naturale. C’è molta gente che senza essere deliberatamente
condannata a morire non è ufficialmente autorizzata a vivere.
La sospensione del pane sopprime indiscipline e indisciplinati.
Si effettua su individui, con la privazione del lavoro e quindi
del mezzo per mangiare, e si esercita su masse, non lasciando o
non distribuendo loro il grano per sfamarsi. È semplice e
automatica come la chiusura di un rubinetto. Le regioni agricole
che si mostrano ribelli all’istituzione delle “collettivazioni”
sono semplicemente degranizzate. Nel 1933, alcuni milioni di
contadini sono stati lasciati morire di fame in Ucraina, perché
non volevano rinunciare alla proprietà dei loro campi.
Aggiungiamo, per debito di equità, che è stato anche fucilato a
Mosca il Commissario del Popolo per l’Agricoltura, insieme a due
suoi sottosegretari, sotto l’accusa di debolezza verso gli
ucraini. Le “collettivazioni” galoppano.
Adesso si muore di fame nel Turkestan,
dove, secondo persone degne di fiducia che hanno visto, è comune
trovare cadaveri per le strade, e si digiuna in varie altre
zone. Si tratta di “incidenti” che non arrivano alla stampa. O
vi provocano un accenno laconico ed intimidante, come quando si
è pubblicata mesi or sono una lista di popolose “stanitze”
cosacche del Caucaso settentrionale con l’annunzio che avevano
“cessato di esistere”.
Con questi mezzi tutto va come un orologio.
Sul lavoro, disubbidire, o mancare, o sbagliare, sono colpe che
possono assumere l’aspetto di attentati ai “Piani”. È sorta la
figura del “crimine economico”, qualche cosa paragonabile al
tradimento contro lo Stato in tempo di guerra. Avviene spesso
che, per aver prodotto pezzi difettosi, degli operai siano stati
arrestati e deferiti ai Tribunali speciali, che sono delle vere
corti marziali sul fronte del lavoro.
Non è un padrone comodo il comunismo. Paga compensi di miseria,
impone il cottimo, dimezza lo stipendio all’operaio la cui
macchina si ferma, purché egli non vi abbia colpa, perché se vi
ha colpa l’operaio è sospeso o processato. La “Ghepeù” ha
arrestato tanta gente che si è messa ad intraprendere lavoro
colossali con le moltitudini dei suoi prigionieri politici.
Sono eserciti di prigionieri che scavano canali, erigono
impianti, costruiscono ferrovie, tagliano foreste, operano
fabbriche, faticano fra i ghiacci della Carelia e sulle steppe
infuocate dell’Asia Centrale, erigono fortificazioni sull’Amur,
fanno strade nel Turkestan; e tutti quegli ingegneri di cui
leggiamo ogni tanto la condanna per “sabotaggio” o per
“connivenza col nemico” formano gli stati maggiori – detenuti –
nella sterminata e cruenta battaglia del lavoro forzato.
Sarebbe un grave errore non riconoscere l’esistenza ed
il valore di un sincero entusiasmo fra i più giovani, fra coloro
che non conoscono e non concepiscono altra vita, e che
l’educazione bolscevica ha forgiato nella persuasione di essere i
liberi ed i privilegiati del mondo, circondati dalla miseria e
dall’oppressione del “capitalismo” che li invidia e medita la loro
aggressione. La contentabilità degli uomini dipende dall’idea che
essi si sono fatti del “meglio”. Tutto è relativo. Da secoli,
tribù di popoli arretrati mancano di quello che a noi pare
necessario, e sono perfettamente soddisfatte e felici. La nostra
miseria è la loro normalità.
Lievi fili di una fede mistica e fanatica si intrecciano al greve
e opaco tessuto di inerzia, di fatalismo, di passività e di paura
che costituisce la massa del popolo russo, e lo tengono insieme in
una compattezza di disciplina, di rassegnazione e di speranza.
Queste sono le energie positive sotto al cui martellamento di
forgia un destino indefinibile. Nessuno può dire se è il sogno di
Lenin od il sogno di Pietro il Grande che trascina la Russia verso
un avvenire misterioso.
* * *