Luigi Barzini – URSS. L’impero del lavoro forzato > 2. La nuova folla di Mosca
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Mosca è piena di un movimento denso,
umile e pacato. La sua animazione è sul
marciapiede. Il centro della strada langue. Rare vetture solcano
il vuoto fra masse di pedoni. Si direbbe che un effetto della
rivoluzione sia stato quello di appiedare la Russia.
Sulla neve calpestata e sporca, lungo le basi degli edifici si
muove una moltitudine oscura, ordinata, coperta di vecchi,
poveri e logori indumenti. Porta
l’uniforme della miseria. È una folla grave e taciturna. Il suo
silenzio fa pensare agli affollamenti della cinematografia
pre-sonora.
Se rivolgete la parola ad un passante,
questi affretta il cammino fingendo di non udire e di non
vedere. Si indovinano in questa gente diffidenze vaghe, le
preoccupazioni di non farsi notare, di evitare contatti ignoti,
di confondersi nella massa. Ognuno pare si senta osservato,
vigilato, spiato, sospettato. Parlare con uno straniero è
pericoloso. Sappiamo di persone che sono scomparse per aver
frequentato un’ambasciata. La gente si sorveglia, timida,
assorta, silenziosa. Docilmente, al minimo intoppo la si ferma e
aspetta. Non osa spingere. Forma automaticamente la fila, per
abitudine, anche per comprare un giornale.
Questa impassibile povertà umana contrasta singolarmente con la
grandiosità un po’ logora e deteriorata ma nobile, degli
edifici, con il profilo sontuoso ed orientale della città che si
solleva nobilmente a cuspidi e cupole contro al cielo grigio.
Sulle torri italiane del Cremlino, guardiane di un gregge di
chiese e palazzi, le vecchie aquile imperiali spiegano ancora
intatte le loro grandi ali araldiche di ferro. Gli antichi simboli del dominio rimangono sulle vette
di questo strano paese.
Quasi ogni passante porta un umile
fardello. Involti, sacchi, cesti, pacchi, valigie, oscillano
nella folla come i chicchi di grano in un formicaio. Ogni
individuo va per conto suo. Hanno tutti l’aria di emigrare in
direzioni opposte con il loro piccolo bagaglio. Le distanze sono
enormi; nei tramways, veicoli egualitari ma insufficienti, è
difficile trovare un posto; ed uscire di casa significa mettersi
in viaggio. All’apparenza, la vita
esteriore di Mosca si svolge sotto le forme di una grande
marcia, monotona, penosa, incessante, opprimente come una cosa
vista nell’incubo.
La folla ha in genere un aspetto
campagnolo, rude e mansueto. Non differisce da molto da quello
che era, agli occhi dello straniero, l’estremo bordo, neutro e
confuso, del paesaggio sociale della Russia. Sfuggiva quasi
all’attenzione, come un elemento accessorio e caratteristico sul
quale prendeva rilievo un’altra vita che occupava il centro
della scena, la protagonista, varia, clamorosa, pittoresca,
rituale, opulenta, raffinata, educata, colta, frivola e potente,
progredita e feudale: la vita della grande società che dava a
Mosca un tono di sontuosità elegante e barbarica. Essa è
scomparsa dal quadro, è stata cancellata, ed è rimasto il fondo,
che non era mai stato guardato bene, cupo, diffuso, immenso, che
ha invaso tutto.
Perciò il marciapiede è gremito ed il
centro della strada è quieto. Sono spariti i cavalli, che erano
l’orgoglio di Mosca, sparite le slitte tintinnanti e le troike
festose, spariti gli “isvoscik” mastodontici dalla tulupa verde
ed i bottoni d’oro, sparite le vetture private d’ogni genere, e
sono spariti gli usi, le idee, gl’interessi, le tradizioni, le
foggie, le ricchezze, le mode, che questo traffico trasportava.
Persino i colletti bianchi ed i cappelli di feltro sono
scomparsi, sospetti di borghesismo. Circolano in numero moderato
alcune superbe automobili, ma bisogna avere un’alta carica
sovietica od essere stranieri per andarvi dentro. La strada
offre una sintesi della trasformazione sociale della Russia.
La rivoluzione non ha spodestato: ha
divorato.
La distruzione completa della vecchie classi dirigenti, le
classi del dominio, della proprietà, degli affari, si spiega con
l’estrema sottigliezza di questa crosta di signorie e di caste
distaccata dal popolo. Essa deteneva quasi tutta la ricchezza
del Paese. Un terzo del territorio
coltivato dell’impero apparteneva a 699 signori; 62 milioni di
ettari si trovavano nelle mani di 27.000 proprietari fondiari.
Novanta milioni di contadini erano ancora praticamente servi
della gleba. Crollata la soprastruttura del potere è apparso un
oceano di diseredati rimasti ai primordi della storia. Qualsiasi
soffio lo avrebbe sollevato a tempesta. La tempesta è venuta ed
ha tolto tutto a tutti. È stata la rivoluzione del diseredamento
universale.
Come allo spezzarsi di dighe e di argini, ai primi anni del bolscevismo marosi umani si levarono dalle campagne e irruppero nelle città, nei recinti privilegiati ai quali era riserbato il poco pane disponibile, vi dilagarono, vi si fermarono, vi si calmarono. Fu all’epoca delle guerre civili, delle stragi, delle devastazioni. La Russia fu percorsa da bufere umane di cui non vi è esempio nel mondo. A mano a mano che le requisizioni sovietiche e le persecuzioni bianche e rosse creavano la carestia, si formavano esodi di turbe fameliche verso i centri urbani.
Le armate bianche, accecate da uno spirito di vendetta
che si sfogava in persecuzioni di cui i contadini erano le prime
vittime, avanzavano da ogni parte. Il Governo sovietico ricorreva
alle supreme risorse del terrore e del fanatismo e lanciava le
armate rosse ad una guerra senza quartiere, spietata, atroce,
inesorabile. L’orrore rispondeva all’orrore, la ferocia alla
ferocia.
La “Ceca” teneva il Paese sotto ad una vigilanza mitragliante, era
una macchina di sterminio che scattava al sospetto. Più di due
milioni di russi fuggivano all’estero mentre il bolscevismo
spazzava con la mitraglia e con la fame classi e ranghi.
Vien fatto di ricordare la “scopa” che fu
l’emblema degli “oprisenikis” di Ivan il Terribile – i primi
predecessori della “Ceca” e della “Ghepèu” – orde di sbirraglia
con sei settimane di massacri insegnarono alla vecchia
repubblica di Novgorod a venerare lo zar (ed è singolare che
questo simbolo di persecuzione inesorabile sia risorto in una
scopa d’argento offerta dai capi comunisti a Stalin, per
glorificare la sua implacabile lotta di cancellazione contro i
suoi avversari Trozkisti).
I grandi sussulti della Russia sono stati
sempre accompagnati da vampate di annichilimento, vaste come
incendi di foreste. Per quattro anni la Russia è stata lo
sconfinato teatro di un’epopea ciclonica, la cui grandezza
truce, selvaggia, inimmaginabile, è ricca di eroismi e di
infamie. Di essa a noi non è che arrivato un bagliore.
Basta ricordare che questo cataclisma apocalittico di fuoco e di
sangue ha rovinato 21.250 chilometri di ferrovia, cancellandone
in alcuni luoghi le traccie a tale punto che si sono visti
contadini seminare il grano dove erano state le rotaie, per
avere un’idea dell’immensità dell’uragano sociale che ha
imperversato sulla Russia, schiantando ogni vestigia del
passato. Persino la parola “Russia” è scomparsa, condannata come
reazionaria. Non si dice più che U.R.S.S.: una sigla che
cancella i confini con l’intenzione di includere eventualmente
il resto del mondo.
In quel sinistro periodo di lotte
fiammanti e di crudeltà glaciali quando su tutta la terra russa
si determinarono spostamenti di masse, emigrazioni di gente in
cerca di pane, o di pace, o di bottino, rigurgiti di umanità
disperata ed esasperata. Mosca fu una delle mete di queste
carovane di miseria che nulla teneva sulla loro terra, attirate
dalle città accaparratrici di grano e di comando.
Così Mosca, che aveva nel 1917,
all’inizio della rivoluzione, un milione e mezzo di abitanti, ne
ha ora oltre tre milioni e settecento mila, benché centinaia di
migliaia dei suoi vecchi abitanti siano spariti, fuggiti o
massacrati, o morti di fame.
Si sente questa saturazione campagnola
nella folla. È denunziata dai vestiti – che sono la cosa più
difficile a rinnovarsi in questi tempi – dagli enormi stivali di
feltro
deformati e dalle lacere pelliccette di capra fatte a gonnella.
Ed è denunziata dall’abbondanza di visi
tondi, di zigomi sporgenti, di occhi mongoli, dalla quieta
andatura e dal mutismo. È una folla che ha le lentezze e le
timidità dell’intruso e quella impassibilità taciturna della
gente abituata ad essere sepolta dall’inverno per sette mesi
all’anno.
Questa nuova popolazione di Mosca viene da ogni regione, e in
parte notevole dalle pianure del Volga; gente che ha lasciato le
steppe del sud o le tundre del nord, o la taiga dell’est; una
moltitudine che ricorda l’Asia nelle fisionomie e nelle foggie,
masse rozze, attonite, stracciate, le quali fanno pensare ad una
invasione barbarica che abbia conquistato una capitale straniera
scacciandone o trucidandone gli abitanti.
Il nomadismo è un istinto caratteristico del popolo
russo. Viene forse dall’idea che “altrove” si
stia meglio, idea che hanno tutti quelli che stanno male. Viene
anche dalla natura del paese, aperto, senza argini di monti, un
mare di terra sul quale sorge il bisogno di navigare. E viene
probabilmente dalla mancanza di vincoli, di proprietà, di
interessi legati al suolo, da quella sete di terra che ha mosso
tutte le grandi emigrazioni primitive: sete di terra propria. Il
popolo russo è andato sempre alla ricerca di una sua Russia.
Sembra condannato a non trovarla mai.
Nessuna invasione, nessuna guerra, nessuna rivoluzione, ha
nell’occidente sradicato il contadino dai suoi campi. Ma qui il contadino era già sradicato nell’enorme
maggioranza dei casi. In Russia, appena uno sconvolgimento
politico spezza i vecchi controlli, correnti umane straripano
come acqua alla rottura di un argine.
Fu appunto per fissare sul suolo questi
eterni nomadi, e creare una permanenza del lavoro campestre che
garantisse le coltivazioni sulle possessioni dei nobili e della
corona, che quattro secolo fa gli zar decretarono la servitù
della gleba. Ora questa schiavitù è tornata, più dura e più
crudele.
Per fermare gl’impulsi vagabondi delle
masse il bolscevismo è ricorso agli stessi metodi di Ivan il
Terribile e di Boris Godunow.
Si è stabilito un passaporto interno che inchioda. Nessuno può
muoversi senza permesso. L’operaio è legato all’officina e il
contadino alla “collettivizzazione”.
La propaganda sovietica dà a queste
severità il colore di una disciplina al servizio del
proletariato, ma è il ritorno della schiavitù. La schiavitù
della macchina si è aggiunta a quella della gleba. Guai a chi si
muove. Non ci si muove che per ordine, con scontrini, ricevute e
controlli, come un pacco postale. Una strana forza di eventi
impone la comunismo misure del passato, le più crudeli, le più
barbare, le più anacronistiche.
È anche possibile che non vi siano molti modi per governare la
Russia.
Questo popolo ha qualità e virtù grandi, può evolvere
rapidamente, possiede nella sua stessa immaturità civile le
forze di una possente verginità, fatta di fervore, di ingenuità,
di speranze, di assenza di precedenti e di consuetudini in fatto
di progresso, come le forze del pionierismo al quale l’America
deve la sua grandezza ed i suoi slanci. Ma è rimasto indietro di
epoche.
Le classi dirigenti, incipriate di modernità non erano della sua
stoffa. Erano piuttosto “razze” dirigenti. Costituivano una
stratosfera di dominazione. Il popolo era lontano da loro,
distaccato e dissociato, come le mandrie dai pastori. Esso non
creava la propria storia: la subiva. Una storia di congiure, di
pronunciamenti pretoriani, di feudalismi boiardi, di dispotismi,
di conquiste, di grandi zar e di zar imbecilli che hanno finito
per dormire insieme, uno a fianco all’altro, venerati e
santificati anche dopo essere stati assassinati, nei sarcofaghi
della Cattedrale dell’Arcangelo.
È stata una immensa tragedia di stampo asiatico nella
quale il popolo non è mai intervenuto se non per acclamare e
obbedire, ed eventualmente per farsi impiccare dopo una futile
sommossa.
La Russia è sempre stata governata come un paese di conquista.
La civiltà europea è arrivata dove è arrivata Roma, con il Fascio
o con la Croce. La Russia non ha mai subito l’influenza del
pensiero e della legge romana. Gli slavi sono comparsi alle
frontiere dell’Europa quando Roma era caduta. Hanno preso la
religione da Bisanzio e il governo da Tamerlano. Noi vivevamo in
pieno Rinascimento quando la Russia era una fedele provincia della
Mongolia. Perciò la sua formazione sociale ha
conservato tipici aspetti dell’Oriente, e tutto quello che vi
viene ha sempre un sapore tartaro, anche quando si crede di
dargli un gusto americano.
Mentre in Europa la partecipazione del popolo e il benessere del
popolo, per eredità romana, non solo non possono essere estranei
all’idea di governo, ma sono una ragione del governo, la Russia
è stata retta da una specie di satrapismo asiatico che
considerava la sovranità come una forma assoluta, sacra e
insindacabile, di proprietà personale su genti, terre e cose.
Lo zar apparteneva a quella tipica classe
di sovrani divini, che solo l’Asia ha prodotto, come il Figlio
del Cielo, il Dalai Lama o Buddha vivente, il Padiscià vicario
di Allah, e lo stesso Mikado. Lo scopo vero del governo russo è
sempre l’esercizio del potere, cioè la conquista, la forza,
l’espansione del dominio e della fede, la sottomissione dei
miscredenti. Il popolo non era che una energia motrice di lavoro
e di guerra. È rimasto al comando un sapore di fanatismo
religioso, una indipendenza da ogni idea di equità umana.
Il popolo russo ha delle qualità
contraddittorie: è passivo ed emotivo, impulsivo e pigro,
mistico e brutale, paziente e
insofferente. Ma la docilità, la rassegnazione, la capacità di
soffrire in silenzio e di dimenticare, costituiscono le tipiche
virtù di queste masse sentimentali e crudele che la musica
seduce, la parola esalta, e che nessuna durezza stupisce. Sopra
tutto esse sono fataliste, persuase della
ineluttabilità degli eventi, pronte ad accettare ogni destino,
perché è destino.
Il popolo russo è rimasto semplice, elementare, con idee
primitive e rudimentali di sottomissione o di rivolta. In fondo
esso obbedisce sempre, e quando si solleva è perché il comando
del disordine risulta più forte. Le sue sommosse furono sempre
anarchiche e massacratrici. Come il sollevamento di quel
Bolotnikov, schiavo liberato, che tre secoli fa mise a ferro ed
a fuoco mezza Russia guidando bande di contadini sterminatori al
grido di “Niente più autorità, ammazzate, prendete tutto, la
legge è finita”. Il secondo “falso Dimitri” non sollevò forse le
campagne capitanando diecimila cosacchi fin sotto Mosca con il
programma assolutamente bolscevico di “far sparire tutte le
ricchezze private per costruire un bene comune”? Così pure fu una terrifica convulsione che oggi si
direbbe comunista che insanguinò il sud dell’impero dal Volga
agli Urali, sotto Caterina, con la famosa rivolta di Pugacev il
cosacco. Il popolo russo si è trovato in ogni tempo pronto al
sollevamento, come una materia infiammabile è pronta a divampare
alla minima scintilla. Fa pensare a quegli esplosivi moderni con
i quali si può fare del concime, e che producono fertilità o
sterminio.
Nelle sue rivolte vi è stato sempre un fondo messianico, un
atteggiamento di rivendicazione universale, un miscuglio di
vendetta, di ferocia, di sogno, di utopia. Era metallo che per
la minima fessura colava, brillava, illuminava, bruciava, poi
ricadeva oscuro, freddo, pesante e immobile per altri cento
anni.
Si comprende come su queste masse malleabili e ignare,
rigorosamente escluse da contatti con altri paesi, persuase da
una propaganda forsennata che tutti popoli del mondo rovinati,
affamati e perseguitati dal capitalismo, le ammirano e le
invidiano, si comprende, diciamo, come l’esperienza sovietica
possa svolgere tranquillamente la sequela capricciosa dei suoi
giganteschi tentativi, i quali finiranno probabilmente per
adattarsi a poco a poco alle leggi eterne delle necessità umane
e del consorzio civile.
L’innocente operaio comunista russo è così sicuro della
rivoluzione mondiale vicina e inevitabile, che considera con
profonda pietà lo straniero, destinato a trovarsi in mezzo ad
orrori assai più grandi e terribili di quanti la Russia conosca.
E si ritiene straordinariamente privilegiato.
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