Luigi Barzini – URSS. L’impero del lavoro forzato > 1. Una porta di ferro
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La Russia bolscevica accoglie lo
straniero alla frontiera con una correttezza formale e posata.
Arrivando ci si aspetta, non si sa perché, un apparato più
severo e rivoluzionario, qualche cosa nella buona tradizione
cinematografica, baionette in canna, comandi rauchi, volti
feroci, un po’ di confusione comunista. Invece no.
Le giovani guardie della “Ghepeù” di frontiera, che compaiono
sul treno ancora in moto a ritirare i passaporti, vestono con
una eleganza vecchio stile il caratteristico cappotto dei
soldati russi, lo stesso del tempo zarista – quella specie di
pittoresca tunica avana attillata al busto e ricadente gonfia a
gonna dai fianchi fino a terra –, portano il berretto a piatto
dei vecchi tempi, e, se il loro sguardo è insistente ed
inquisitivo, la loro parola è deferente e breve. Le mani esperte
dei doganieri penetrano in ogni angolo delle vostre valigie ma
poi non disdegnano di rimettere le cose a posto. Vi è quasi
troppo ordine, troppo silenzio, troppo raccoglimento.
Non si parla, si sussurra. Nell’ampia sala nuova della stazione
di Negoreloje – la prima della Russia sovietica sulla frontiera
polacca – i passeggeri si avvicinano a numerosi sportelli, che
si allineano alla parete, con la compunzione di penitenti al
confessionale, per bisbigliare i loro desideri di biglietti o di
altro ad una burocrazia melanconica, dall’aria convalescente,
lenta, denutrita e mal vestita, insediata dall’altra parte.
Queste operazioni sono lunghe e complicate. Si compiono a fasi,
con soste a vari sportelli. In uno si
espone la domanda e si riceve uno scontrino. In un altro si
porge lo scontrino, si paga, e si ottiene una quietanza. Poi si
torna al primo, si presenta la quietanza, e non succede niente.
Vi dicono di ripassare dopo mezz’ora.
In alto, lungo la cornice, corre la scritta in quattro lingue:
“Lavoratori di tutto il mondo unitevi”. Ma è una scritta in oro,
a grandi caratteri classici, aristocraticissima di aspetto come
una motto aulico in una sala regia.
Arriva a folate il suono di un orchestra.
È la sola stazione con musica permanete che abbiamo visto nei
nostri viaggi. Insediati sopra una piattaforma in un angolo del
“buffet”, tre solitari compagni musicisti suonano mestamente,
vestiti di una gualcita uniforme nera – l’uniforme dei suonatori
di Stato, forse – l’aria rassegnata e sonnolenta.
Nella penombra della sala quasi vuota, dei
paralumi rosa formano oasi di chiarore su tovaglie bianche. È
una messa in scena occidentale a beneficio degli ospiti. Qualche
fiore finto sui tavoli. Ritratti in litografia di Lenin, di
Stalin e di patriarchi minori alla parete. Ma la sala è vuota.
Non vi scorgiamo che due consumatori impellicciati fino agli
occhi che meditano su bicchieri colmi di tè. Fuori nevica.
Sulla soglia di casa, come
ogni luogo destinato essenzialmente alla frequenza degli
stranieri, il comunismo russo si presenta con un decoro
rassicurante di tradizionalismo. Ma si sente che si varca una
porta di ferro.
Si ha immediatamente la coscienza di legami inauditi che vi
vincolano e vi sottomettono ad obblighi da ammonito, di un
comando impersonale che vi annette quietamente, di un meccanismo
poliziesco che vi prende, vi classifica, vi assegna un posto, vi
impone doveri mai avuti e vi toglie diritti che consideravate
inalienabili, senza scosse, automaticamente, con dei formulari,
dei bolli, dei regolamenti. Questo
confine fa l’effetto della soglia di un carcere. Siete avvertiti
che non potete sostare in alcun luogo lungo il percorso
autorizzato dal passaporto, salvo in caso di malattia da
deferirsi al Soviet locale. Entro ventiquattro ore da ogni
arrivo dovete denunciare la vostra presenza alla polizia.
Nessuno spostamento di soggiorno o itinerario può essere fatto
senza permesso. Ogni infrazione espone all’applicazione delle
“sanzioni d’uso”. La durezza di questi rigori è mitigata forse
dalla loro generalità.
Quando tutti si è nelle condizioni di
vigilati speciali, si entra in un’atmosfera nuova di normalità
questurina. Il controllo si estende anche sulle spese dello
straniero. Il denaro che egli porta viene contato e registrato.
Egli non può possedere moneta russa, è obbligato a spendere
moneta straniera al cambio fissato dal Governo, e deve spendere
sul territorio sovietico una somma non minore a circa cento lire
italiane al giorno per l’intero periodo della sua permanenza. Se
spende meno, la differenza gli è sequestrata all’uscita della
frontiera.
Lo straniero appare adesso più che mai un elemento
indispensabile alla trasformazione tecnica del Paese, ma è un
elemento eterogeneo, insolubile, portatore di calcoli lodabili e
di idee politicamente ed economicamente condannate in Russia. È
naturale che sia isolato e sorvegliato. Lo è stato sempre nelle
grandi crisi, più o meno. Una volta perché era cattolico o
protestante, poi perché era liberale o giacobino, adesso perché
è “capitalista”. Il confine russo ha
segnato in ogni tempo un fronte di contrasti e di antagonismi,
la linea d’urto di due mentalità, di due storie, di due mondi.
Davanti alla fede ufficiale della Russia, rossa o nera, lo
straniero si è sempre trovato come un eretico in chiesa. La
frontiera funziona in Russia da cordone sanitario contro le
infezioni politiche e religiose.
Il bolscevismo ha adottato, esagerandole, le severità confinarie
di Nicola I e di Alessandro III. Perché il bolscevismo in fondo
si regge sulla esasperata adozione di quelle istituzioni zarista
che essa odiava e dichiarava nefande, e per distruggere le quali
è nato.
Lo straniero viene separato dalla vita
russa, insediato in alberghi speciali organizzati per lui,
circondato da controlli incessanti e vigilanti. Così,
anticamente, vi era un quartiere di Mosca destinato agli
stranieri, la “Nemezkaya Sloboda”: il ghetto dei civilizzati.
Ma è per i russi stessi, più che per gli stranieri, che la
frontiera è mantenuta impermeabile. Nessun russo che non abbia
missioni sovietiche può uscire, e se uscito rientrare. Non
passano giornali, non passano libri, non passano idee. Nessun
cittadino dell’U.R.S.S. deve sapere come si sta fuori. Chi è
sospetto di comunicazioni con l’estero è messo in “quarantena”
in qualche angolo della Siberia, o eliminato con metodi più
sicuri.
Nulla appare al bolscevismo così pericoloso come il paragone.
In queste severità sovietiche è l’impronta tipica del vecchio
zarismo. Esse tornano dalla lontananza dei tempi. Derivano forse
dalla natura del popolo, instabile,
incoerente e fluida, alla quale occorrono argini e chiusure
perché si rapprenda nella forma che le si vuole dare. La
clausura perfeziona la fede.
Chi ha conosciuto la vecchia Russia si
accorge arrivando di un mutamento singolare nell’apparenza degli
uomini. Sono scomparse quasi completamente le barbe.
Non vorremmo sembrare frivoli o superficiali fermandoci su
questa variazione capillare, ma in realtà la tosatura dei volti
è il segno esteriore più immediato di una trasformazione
sociale. Perché la barba sotto gli zar non era per il popolo un
accessorio facciale completamente facoltativo; era un emblema,
un simbolo, una tradizione, una uniforme. Si connetteva alla
fede religiosa, costituiva il marchio dell’ortodossia. I
contadini ritenevano che senza barba non si potesse entrare in
Paradiso. Ivan IV non accusò forse Papa Gregorio III di eresia
perché si faceva radere il mento?
Era nella nostra memoria una bionda messe di fluenti barbe di
gendarmi, di mugik, di popi, di mercanti. Soltanto delle
rivoluzioni trionfali potevano arrivare a far scoprire il viso
degli uomini a Mosca e quello delle donne a Stambul. Pietro il
Grande non ci riuscì. Quando egli volle europeizzare l’impero
capì che bisognava per prima cosa attaccare le barbe o la
partita era perduta, e rase con le sue stesse mani imperiali i
boiardi della corte. Il popolo non accettò il rasoio.
Da allora ogni orientamento della Russia verso l’Europa ha avuto
degli effetti depilatori sui volti delle più alte classi
dirigenti. La barba è diventata così una specie di barometro
della politica russa.
L’europeismo la faceva calare e la
reazione la faceva crescere. Ma il clero e le moltitudini
popolari più umili sono rimasti tenacemente fedeli fino
all’ultimo all’opinione di Ivan il Terribile. Il bolscevismo ha
provocato un diboscamento quasi generale dei volti maschili
sull’U.R.S.S. Non è una moda: è come un distintivo
all’occhiello. Le carte monetate da cinque rubli portano
impressa l’immagine simbolica di un operaio, perfettamente
sbarbato. Rappresenta il tipo sintetico delle nuove masse.
Sarebbe temerario immaginare che anche
questa volta la scomparsa delle barbe significhi un
avvicinamento all’Europa. Mai forse la Russia ha guardato
l’Europa con un così profondo senso di distacco, di
diversificazione, di antagonismo, di ostilità. L’episodio
capillare risponde ad un movimento tutto interno; riflette la
sconfitta e l’annientamento di tutto quello che rappresenta il
passato, con le sue foggie, le sue idee, le sue icone, il suo
esteriore biblico, le sue tradizioni, i suoi riti.
L’Europa non c’entra.
L’Europa è più lontana che mai.
L’Europa finisce ai Carpazi e all’Oder. La Russia è
un’altra parte del mondo, la Sesta, che bisognerebbe aggiungere
alle cinque elencate dai manuali geografici.
La Russia è qualche cosa a sé, immensa e tipica, assai più
estranea a noi che non sia l’America. È il preconcetto
dell’europeismo della Russia che in parte turba e devia il nostro
giudizio sugli eventi russi. Perché ci induce a spiegarli con la
nostra logica europea, con la nostra esperienza storica, con il
nostro senso dell’equità e della giustizia, con il nostro concetto
del governo, e finiamo per immaginare non già quello che i russi
sentono, pensano e vogliono, ma quello che noi sentiremmo,
penseremmo, vorremmo e faremmo, se fossimo al loro posto. È
tutt’altra cosa.
Quando si è qui, e ci si immerge in questa
atmosfera sociale, e ci si muove fra questa gente, si ha
l’immediata percezione che il nostro ragionamento è un metro che
non misura più. Capiamo la difficoltà di capire, il che è il
primo passo verso la comprensione.
La stabilità del precario, la permanenza del provvisorio, la
solidità del paradossale, la normalità dell’insopportabile,
diventano una evidenza. Trovano una
spiegazione nelle condizioni del paese, che non ha riscontri nel
mondo, e nella speciale natura del materiale umano, che non
somiglia a nessun altro. A ben guardare, noi riterremmo assurdo,
impossibile e inverosimile anche il sistema zarista se non fosse
vissuto quattro secoli.
Le teorie che hanno costruito la bandiera della rivoluzione
russa, puramente occidentali, così familiarmente europee, con la
loro terminologia di “marxismo”, “socialismo”, “comunismo”,
contribuiscono a disorientare l’opinione europea, che vede nella
Russia una specie di pietra di paragone di queste dottrine. Ma
se la teoria socialista e internazionalista ha animato la
rivoluzione e rimane ufficialmente la sua stella polare, la
smisurata, formidabile e inesorabile esperienza sovietica è
andata assumendo forme, adottando metodi, applicando concetti,
tipicamente russi, sempre più distaccati da ogni e qualsiasi
analogia europea.
Questo “comunismo” è sopra tutto ed essenzialmente “Russismo”.
Sotto ad una moderna e grandiosa soprastruttura tecnica e
scientifica costruita subitamente con l’impeto e l’urgenza con
cui si fa una trincea, ritroviamo una Russia antica, originale,
che ha gettato il pesante mantello di occidentalismo di cui
Pietro e Caterina l’avevano coperta, una Russia barbarica, nuda,
torva, scarnificata ed esasperata, che evolve lentamente, a
scosse e sussulti, verso sistemazioni e normalità ancora
imprecise.
Oggi non è più quella di un anno fa.
Lenin, l’iniziatore, è lontano nel tempo. Le sue idee sono
glorificate e sepolte. È lontana la rivoluzione degli emigrati,
dei congiurati, formatisi fuori del loro paese e del loro popolo
in una cultura straniera e cosmopolita, fra sogni, utopie,
ideali, parossismi e ferocie di una vastità semplicista e
internazionalista. Essa ha soltanto distrutto. Sono venuti
uomini che non vedono, non sentono, e non capiscono che la Russia, benché siano convinti di agire in uno
spirito universale e si indignino di qualsiasi sospetto di
nazionalismo imperialista. Agiscono come conquistatori ma
vogliono essere considerati liberatori. Il loro regime è
un’autocrazia parossistica che tiene il popolo schiavo ma lo
chiama padrone.
Ivan Turgheniev diceva che la Russia
era ancora nel “periodo gassoso”. Egli scriveva cinquant’anni
fa: “Temo assai che il periodo seguente, cioè il periodo
planetario, si faccia attendere, poiché non vedo intorno a me
niente di stabile, di condensato, di compatto, non soltanto
nella società ma neppure nel popolo”.
La rivoluzione sovietica non sarebbe forse un cataclisma cosmico
di questo mondo in formazione?
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